Se ‘ritornasse’ S. Agostino ed entrasse in una delle nostre chiese per
partecipare alla Messa domenicale, quali canti - e come eseguiti - sentirebbe?
Chissà se ne rimarrebbe commosso, così da ripetere le parole che leggiamo nelle
sue Confessioni: «Mi ricordo le
lagrime che versai ascoltando i canti della tua Chiesa al principio della mia
conversione, e osservo che anche adesso sono commosso non dal canto ma dalle
cose che si cantano, quando sono cantate con voce chiara e adattissima
modulazione: riconosco di nuovo la grande utilità del canto ecclesiastico» ((X
33).
Sappiamo che Agostino ravvisava (scrupolosamente?) un pericolo spirituale nella
sua ‘commozione’: «Più tenacemente mi avevano legato e soggiogato le voluttà
dell’udito; ma mi sciogliesti e mi liberasti. Adesso confesso di compiacermi un
po’ nei suoni che animano la tua parola quando sono cantati con voce soave e
con arte; non per restarvi legato, ma per levarmi di là a volontà. Tuttavia
queste voluttà cercano di ottenere nel mio cuore un posto di qualche
importanza…» (“Confessioni”, ib.). Sentimento e commozione, arte e preghiera,
estetica e liturgia: che dire di questi ‘intrecci’, favorevoli o sfavorevoli al
celebrare liturgico? Quasi a commento delle parole di S. Agostino, il
liturgista C. Vagaggini, a metà del secolo scorso, scriveva: «È certo che
l’equilibrio oggettivo e soggettivo in cui l’arte è veramente mezzo proficuo
per l’elevazione a Dio è delicato a mantenersi. Non sempre infondate furono
nella storia della Chiesa le ripetute reazioni degli spirituali contro
l’invasione dell’arte nel santuario troppo accaparratrice dell’attenzione e
lusingatrice dei sensi» (in “Il senso teologico della
liturgia”, p. 58). Consapevoli tuttavia - con S. Agostino, insieme a tutti i
liturgisti, i musicisti e gli animatori che hanno dato e danno vita alla
liturgia - della «grande utilità del canto ecclesiastico», diciamone qualcosa
in queste righe.
Non rito senza musica
È la storia a dircelo: dove nasce, si sviluppa e si
attua un ‘rito’ lì c’è la musica, in forme più o meno elementari, più o meno
solenni; si pensi alle manifestazioni pubbliche (durante i cortei) o agli eventi
sportivi (negli stadi). Pensiamo soprattutto - con l’accezione religiosa della
parola ‘rito’ - alle azioni liturgiche: nessuna nostra comunità cristiana
‘celebra’ senza almeno uno o due canti. L’arte di fare musica si accompagna
all’arte di fare celebrazione.
♦ Canto e musica in genere favoriscono l’unità nel celebrare: ‘dicendo’ in musica
o ‘ascoltando’ musica insieme ci si sente più uniti, si costruisce comunione;
non è chi non veda quanto ciò sia in linea con l’essere il “Popolo di Dio”, la
“Gente santa” che va incontro al suo Signore e lo accoglie.
♦ Canto e musica evidenziano la festa: la liturgia in terra non può non
essere festosa, preludio e anticipo della Festa del cielo. Il fare musica e
specialmente il cantare insieme sono di loro natura ‘emozionanti’: suscitano
emozioni, conducono dall’intelligenza al cuore; ciò che non può non avvenire
nel celebrare le Meraviglie di Dio, abbondantemente già manifeste sulla terra. L’arte
dei suoni deve risvegliare quello ‘stupore’, che pare assente da certe
celebrazioni almeno esteriormente ‘asettiche’ anche per la loro povertà nell’‘habitus’
musicale. Superfluo, di certo, è il richiamare quanto è stato sottolineato con
altre parole: la ‘festa’ non coincide necessariamente con l’abbondanza o la
sontuosità (o lo spreco), come insegna spesso in negativo l’esperienza - per
esempio - della convivialità sociale. Il ‘poco ma buono’ e il ‘semplice ma
bene’ valgono anche per la festa liturgica, che non deve fare a meno della
sobrietà. Mai dimenticando, peraltro, che il cristiano fa germogliare la gioia
dal cuore e sa coniugare acclamazione e silenzio nell’adorare Dio.
♦ Canto e musica sostengono la ritmicità: hanno cioè la capacità di mettere in movimento
ordinatamente tutto l’uomo, anima e corpo, nell’incontro con il Signore e nella
comunione con la Chiesa. Occorre ripetere con insistenza che nella liturgia il
gesto umano è atteggiamento sia dell’anima che del corpo, l’una e l’altro
protesi a Dio. Fare musica, vocale e strumentale, coinvolge in pienezza le
persone col ritmo, componente essenziale dell’espressione musicale. «Cor meum
et caro mea exultaverunt in Deum vivum» - «Il mio cuore e la mia carne [il mio
corpo] hanno esultato nel Dio vivente!»: assai realistica è questa antifona
liturgica nell’esprimere l’esultanza - la festa - che prende tutto l’essere
umano nella sua integrità fisica-spirituale.
Non musica senza pertinenza
La musica nella liturgia deve essere collocata al posto, al momento e al modo giusto.
Chiaro, e perfino minuzioso, è il testo della istruzione “Musicam sacram” del 5
marzo 1967, là dove descrive la «vera solennità» di una celebrazione: «Si tenga
presente che la vera solennità di un’azione liturgica dipende non tanto dalla
forma più ricca del canto e dall’apparato più fastoso delle cerimonie, quanto
piuttosto dal modo degno e religioso della celebrazione, che tiene conto
dell’integrità dell’azione liturgica, dell’esecuzione cioè di tutte le sue
parti, secondo la loro natura» (n. 11). Queste parole fanno ampia eco a quelle
concise (e polemicamente discusse) della costituzione “Sacrosanctum Concilium”:
«La musica sacra sarà tanto più santa quanto più sarà in stretta connessione
con l’azione liturgica» (n. 112). Dopo quasi mezzo secolo dal Concilio Vaticano
II, non è fuori luogo domandarsi e verificare se i nostri canti e le nostre
musiche nella liturgia sono in stretta
connessione con le azioni sacre in cui via via si introducono.
♦ L’integrità dell’azione liturgica
“L’esecuzione
cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura”, è ciò che viene richiesto
agli uomini e alle cose impegnati a celebrare il Signore: è quanto costituisce
l’autenticità di ogni celebrazione;
ed è quanto si esige, non senza rigore, dalle musiche, dai musicisti (esecutori
e compositori), dagli animatori musicali e ‘in primis’ dai responsabili delle
comunità cristiane nel loro compito di presidenti delle assemblee e di ‘registi’
della preghiera della Chiesa. Il rischio - non mai da sottovalutare - è sempre
quello di ‘uscire dalle righe’ o di metter troppo e di sbagliato, di andare ‘a
briglie sciolte’ (non «in stretta connessione» con la celebrazione liturgica). Anche
l’abitudine, la ripetitività o la mole stessa delle celebrazioni possono
indurre a ‘fare di propria testa’, secondo i propri gusti e non secondo le
regole: non secondo quella pertinenza liturgica
che deve essere l’anima rituale di tutte le azioni sacre. Essere ‘pertinenti’
nel celebrare richiede il distacco da scelte suggerite soltanto da vedute
proprie eccessivamente rigide e da una propria formazione culturale che
inclinasse all’arbitrarietà o all’estetismo. Significative a tale riguardo ci
sembrano le parole – cronologicamente lontane dal Vaticano II - di S. Giovanni
della Croce, in una critica che muoveva ai cristiani del suo tempo, più
preoccupati delle “rubriche” che dell’interiorità: «Voglio solo parlare delle
cerimonie che (…) vengono praticate oggi con devozione indiscreta da molte
persone, le quali ripongono tanta efficacia e hanno tanta fiducia nel modo con
cui sono solite compiere le loro orazioni e devozioni da credere che, mancando
o allontanandosi di un solo punto da quei limiti, esse non otterranno frutto né
saranno ascoltate dal Signore, confidando di più in quella esteriorità che nel
vivo dell’orazione, non senza grande irriverenza e offesa di Dio. Così, per
esempio essi vogliono che durante la Messa sia acceso un determinato numero di
candele, né più né meno (…). Essi pensano che, se manca qualcosa di quanto si
sono proposti, manchi ogni efficacia. (…) Sappiano costoro che quanto maggior
fiducia essi hanno in queste cose e cerimonie, tanto meno ne hanno in Dio…»
(“Salita del monte Carmelo”, III, 43-44).
♦ La funzionalità nella celebrazione
“Funzionalità
liturgica” è un’espressione che dall’inizio della riforma conciliare è andata molto
soggetta al fraintendimento: per essa hanno ‘bisticciato’, contrapponendosi, musicisti
e liturgisti, con ragione e torto (come sempre) da ambo le parti. «Canto e
musica, belli o brutti, siano messi
al posto giusto» - hanno detto alcuni liturgisti. «Canto o musica, purché siano
belli e non brutti, basta eseguirli
bene durante la liturgia, all’ingresso o alla comunione o altrove» - hanno
fatto intendere certi musicisti. Grazie a Dio, né tutti i liturgisti né tutti i
musicisti si sono agguerritamente schierati da una parte o dall’altra;
perlopiù, si tratta di capirsi (come sempre) nel sostenere le proprie
convinzioni, badando che quelli dell’‘altra parte’ hanno qualche buona ragione che
va accolta e su cui è bene riflettere.
Dire
funzionalità musicale nella celebrazione è ricordare che anche il ‘segno’ del
canto e della musica in generale deve rispettare una specie di “catena
liturgica”, i cui tre anelli non vanno mai disgiunti: la forma, la funzione e
il funzionamento.
Per forma si intende il tipo di struttura dei canti nelle e per
le celebrazioni liturgiche. C’è la forma letteraria-musicale dell’inno, del
corale, del salmo, dell’acclamazione, della litania, ecc.: l’una o l’altra ha
le proprie caratteristiche e varianti. L’inno è testualmente esteso e musicalmente
variato; l’acclamazione è per lo più breve
nel testo e concisa nell’espressione musicale; il corale è strofico; la litania
si distingue per la sua ripetitività, ecc. Sfogliando un repertorio (ben
fatto), si constata la varietà delle forme usate e proposte: si veda, per
esempio, “Canti per la liturgia” – Repertorio Nazionale (CEI-Elledici). L’una o
l’altra forma va impiegata rigorosamente o liberamente a secondo della funzione
esigita dal rito o del momento rituale.
Per funzione si intende, appunto, la destinazione liturgica per la quale il canto è stato composto o lo
si può utilizzare. Ecco subito un esempio (negativo) chiarificante: il coro ha
imparato un bel corale natalizio o pasquale e vorrebbe eseguirlo, senza la
partecipazione dell’assemblea, al posto del salmo responsoriale. Si verrebbe meno
alla funzionalità liturgica: come ‘salmo responsoriale’ si richiede un salmo o
un cantico biblico, con la partecipazione almeno responsoriale di tutti i
fedeli; non comunque un canto qualsiasi. Lo stesso dicasi di un “alleluia”
eccessivamente innico, prolungato all’eccesso e magari eseguito in maniera
‘soporifera’ (di questo diremo anche dopo). Se si considera che nella Messa, ad
esempio, sono una ventina i testi che si possono eseguire in canto o i momenti
rituali nei quali è possibile introdurre della musica cantata o suonata, si
comprende quante ‘funzioni’ varie richiedano ‘forme’ varie: nelle scelte, i musicisti,
gli animatori, i celebranti devono sempre lasciarsi guidare da una creativa sapienza
liturgica e da una duttile scienza musicale. La legge dell’‘ogni cosa al suo
posto’ vale anche per la liturgia, che al canto ‘tale’ o al pezzo strumentale
‘talaltro’ aprirà le porte e lo ammetterà nella celebrazione se la funzione
rituale sarà rispettata. Così: attingendo dal Repertorio Nazionale, bene a «O
Signore, raccogli i tuoi figli» (n. 369) alla presentazione dei doni; o «Pane
di vita nuova» (n. 37) alla comunione; ma lo stesso canto potrebbe venir
eseguito alla presentazione dei doni scegliendo la strofa VII; oppure «Nostra
gloria è la Croce» (n. 116) in una celebrazione pasquale, ma anche durante una
Messa quaresimale, evidenziando il mistero della Passione. L’ottimo avverrebbe
se lo stesso presidente dell’assemblea sapesse, egli stesso, ‘motivare’ un
canto indicandone la sua destinazione, per esempio, col rilevarne il senso e il
significato mediante una monizione o nell’omelia stessa. La musica nella
liturgia non è un sopramobile da ornamento o un oggetto di lusso da spettacolo per
determinate circostanze, purché ci sia o benché non ci sia: davvero ne sono
tutti convinti, in pensieri, in parole, in opere e… in omissioni? La
convinzione condurrà all’attenzione: si tratterà sempre, prima del che cosa fare in musica nella liturgia,
del come celebrare attentamente la musica nella liturgia. Ci
sovviene l’osservazione del S. Curato d’Ars, il quale, parlando di un certo
«rilassamento» (del clero) diceva: «È che non si dice più con attenzione la
Messa». Attenti, dunque, anche ai tre anelli della catena!
S.
Ambrogio - «il più musicale fra tutti i Padri della Chiesa», che «raccomanda
insistentemente di cantare» (E.T. Moneta Caglio) - dopo aver parlato a lungo e
fatto l’elogio del mare nell’opera “I sei giorni della creazione”, così si
esprime in una solenne immagine: «Che altro è il canto delle onde se non una
specie di canto del popolo? Perciò opportunamente spesso si paragona al mare la
Chiesa quando il popolo entra in folla: dapprima ne riversa le ondate da tutti
gli ingressi, poi, mentre i fedeli pregano in coro, scroscia come per il
rifluire dei flutti, allorché il canto degli uomini, delle donne, dei
fanciulli, a guisa di risonante fragore d’onda, fa eco nei responsori dei salmi».
Solo ridondante poesia, o utopia che ci fa sognare? Sicuramente lo spirito
‘ambrosiano’ ci incoraggia a prendere sempre il largo, verso un meglio anche quanto
a musica e liturgia.
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