Sembra inutile dire che primo ‘esempio di preghiera’ nella liturgia è
colui che la presiede: il celebrante. Dire ‘esenpio di preghiera’ è affermare
pure ‘capacità di presidenza’. Ascoltiamo, innanzi tutto, due testimonianze. La
prima è di Papa Benedetto XVI il quale, dialogando con i presbiteri romani, ha
detto fra l’altro: «Celebrare l’Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo
l’Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere
entriamo nelle parole, che la
Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte
le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come
sacerdoti siamo nella celebrazione eucaristica coloro che, con la loro
preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo
interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare
e trasformare, allora anche i fedeli trovano l’accesso a quelle parole.
Allora
tutti diventiamo veramente “un corpo solo e un’anima sola” con Cristo». Notiamo
l’insistenza sulle parole della liturgia: parole in cui ‘entrare’, a cui
‘unirsi’, così che i fedeli ne abbiano l’‘accesso’. Avvertiamo il richiamo esplicito
al celebrare “in modo giusto”, a partire dalla maniera corretta di proferire e
di fare propri i testi liturgici anzitutto da parte del presidente
dell’assemblea. Meno ‘miti’ - ecco la seconda testimonianza - sono le parole di
S. Girolamo, nei confronti del clero (con riferimento alla loro vita in genere
e probabilmente al loro modo di pregare?), quando critica con violenza la
sontuosità eccessiva delle chiese: «Non sono pochi quelli che costruiscono
muri, ma scalzano la Chiesa
alle sue basi. I marmi sono ben lucidi, sul soffitto a cassettoni splende
l’oro, l’altare è messo in evidenza da pietre preziose; solo i ministri di
Cristo non si distinguono affatto» (Lettera 52, 10).
“Presiedere” è un termine che non è
entrato nel vocabolario cristiano con il Concilio Vaticano II. Già S. Paolo
scriveva ai Romani: «Chi presiede, lo faccia con diligenza» (12, 8). Il
presidente, dunque, occupa il primo posto
con la diligenza umile che fu del Maestro che lavò i piedi ai suoi discepoli,
guidando tutti gli altri a celebrare il mistero di Cristo risorto. Il luogo
stesso da lui occupato «deve mostrare il compito che egli ha di presiedere e di
guidare l’assemblea» (Ordinamento generale del Messale romano, 310). È bene
ricordare che tale luogo è triplice:
• la sede,
collocata sul presbiterio, in posizione che permetta una buona visibilità
dell’assemblea e non sia irrispettosa della custodia dell’Eucaristia; se questa
è disposta nel presbiterio, la sede ovviamente non deve far sì che il
celebrante le volga le spalle. Alla sede egli inizia e conclude la celebrazione
(e il Vescovo dalla sede può talvolta proporre la stessa omelia); qui egli
intona il Gloria e il Credo (che nel rito ambrosiano viene detto invece
all’altare dopo i riti offertoriali), proclama le orazioni, presiede l’intera liturgia
della Parola fino alla preghiera universale, ed esprime anche eventuali annunci
(“avvisi”) dopo l’ultima orazione (e non prima).
• l’altare,
la ‘mensa del pane’, il luogo del pasto sacrificale, chiaramente annunciato
- anche con il canto - nel dialogo del prefazio. All’altare il presidente rimane
fra la preparazione dei doni e la comunione: esso è riservato a lui, ai
concelebranti, ai diaconi e ai pochi accolti; va da sé, perciò, che occorre
guardarsi il più possibile da un certo ‘affollamento’ di persone che vanno alla
e vengono dalla mensa eucaristica, simbolo per eccellenza di Cristo e della sua
presenza, o da un andirivieni sul presbiterio in maniera talvolta scomposta. Nel
rito ambrosiano, suggestiva è la proclamazione, davanti all’altare, dell’annuncio
settimanale della risurrezione all’inizio della Messa vigiliare del sabato. In
celebrazioni particolari il celebrante si pone anche davanti all’altare,
voltandogli le spalle: si pensi alla Veglia pasquale (per l’annuncio della
risurrezione) e soprattutto alla celebrazione dell’Eucaristia con il Battesimo,
la Confermazione
e il Matrimonio.
• l’ambone,
riservato alla lettura della Parola, al salmo responsoriale e all’omelia; non
agli “avvisi” a fine Messa e alla guida del canto; da esso si possono proporre
le intenzione della preghiera universale e viene cantato il preconio pasquale.
Luogo specifico per l’omelia è l’ambone, non l’altare; si sconsiglia l’omelia
in prossimità dei fedeli, scendendo cioè davanti o in mezzo all’assemblea,
magari in movimento con il microfono tra le mani.
Essere comunicativi
Come dire: c’è modo e modo di “presiedere” dalla sede,
dall’altare e dall’ambone, nel pregare per o con l’assemblea, nel parlarle, nel
cantare ‘ad’ essa o ‘con’ essa, nel porgerle le mani o gli occhi. Occorre - si
dice - essere comunicativi per ben
presiedere: intenzione e desiderio legittimi e doverosi. Ciò richiede anzitutto
dignità e semplicità, senza forzature
impicciate e senza disinvolture banali. La cura equilibrata dei singoli
movimenti e delle diverse posture è di somma importanza: forse - per arrivarci
- occorrono anni, in un rinnovato autocontrollo che porta alla ‘padronanza
liturgica’ del proprio corpo.
Essere calmi
Come un sottofondo musicale, sembra di raccogliere
sempre l’invito alla sobria e ‘nobile semplicità’ che deve caratterizzare ogni
azione liturgica. Uno dei segreti per manifestarla e salvaguardarla è la calma, intesa prima di tutto come
atteggiamento interiore che padroneggia il comportamento esteriore. 1) Essa
deriva da una buona preparazione agli atti liturgici; 2) significa disporsi a
celebrare senza fredda rigidità e senza precipitazione istintiva; 3) chiede
naturalezza senza affettazione, ma anche senza indifferenza; 4) deve apparire
già nell’accedere all’altare e poi in ogni spostamento sul presbiterio; 5) farà evitare la meccanicità nella pronuncia
dei testi ‘propri’ (Orazioni, Prefazi, …) e specialmente ‘ordinari’ (Atto
penitenziale, Gloria, …) nel compimento dei gesti rituali, per esempio i segni
di croce, lo spezzare del pane, la distribuzione dell’ Eucaristia; 6) indurrà alla non sovrapposizione di “due
cose fatte insieme” – come: dire “Preghiamo” o il dialogo del prefazio mentre
si cerca il testo sul messale – svilendo così un gesto liturgico; 7) dalla
calma saranno ‘spaziati’ e condotti anche i tempi di silenzio. 8) Ovviamente,
‘calma’ non significa ‘lentezza’ che pesi greve e indisponente. 9) Aggiungiamo
un’osservazione circa il rapporto gesto-parola: non raramente i riti liturgici
si svolgono nella concomitanza dell’uno con l’altra. Pensiamo non solo ai
momenti processionali (all’ingresso, al vangelo, all’offertorio, alla comunione),
ma anche ad atti come lo spezzare del pane, l’avvio della preghiera eucaristica,
la ‘benedizione’ prima delle letture. Si dà il caso che, o i gesti vengano
annullati (per esempio: il saluto e il dialogo con le mani appoggiate
sull’altare), oppure che le parole
(dette o cantate) procedano ‘slegate’ (per esempio: lo spezzare del pane
compiuto frettolosamente mentre l’acclamazione dell’Amen e il canto - Agnello
di Dio, o altro testo nel rito ambrosiano - continuano con eccessiva lunghezza).
Valga in genere sottolineare la massima: nella
liturgia occorrono gesti che diano corpo alle parole e parole che diano senso
ai gesti. Nel caso dell’accompagnamento musicale, ciò richiede un’attenta
sintonia fra il gesto del celebrante e l’esecuzione del canto.
Essere cerimoniali
In relazione a quanto detto sopra, ricordiamo ciò che
si sente dire: «La nostra liturgia soffre attualmente di “deficit cerimoniale”».
Probabilmente - almeno da parte dei più - non si tratta qui del rimpianto di
cerimonie sfarzose, ma della constatazione di celebrazioni non sufficientemente
curate, per mancanza di un giusto interesse, di un gusto celebrativo, o per
trascuratezza di coloro che ne sono i responsabili: gli animatori e, ‘in
primis’, i celebranti presidenti di assemblea. Ormai quasi 50 anni di riforma
liturgica ci inducono a un esame di coscienza: chi partecipa alla liturgia
nella navata non ha e non sente il bisogno di ’rifiniture’ comportamentali
liturgiche in ciò che si compie e avviene sul presbiterio? Una domanda
opportuna, una seria preoccupazione e di conseguenza un buon lavoro per i
nostri gruppi liturgici, in sinergia con i loro presbiteri.
Se la mistagogia è una costante della vita
cristiana, essendo ingresso progressivo
nel mistero, sempre nuovo e sempre più profondo, qualcuno ha il compito specifico
di “guida”: non fa parte anche questo della presidenza dell’assemblea? Si
tratta, alla fine, di essere docili all’azione dello Spirito santo, perché «chi
anima la liturgia è innanzi tutto lo Spirito! È lui che ne costituisce il
respiro vitale. I membri dell’équipe liturgica e altri, come gli animatori dei
canti, devono considerarsi suoi collaboratori, a lui associati e affiancati, e
non suoi sostituti!» (P. De Clerck, “Liturgia viva”, Edizioni Qiqajon).
Don Giancarlo Boretti
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