domingo, 27 de noviembre de 2011

ALLA TAVOLA DELLA PAROLA

            Ne è passata dell’acqua sotto il ponte dal tempo in cui - perfino ai seminaristi -la Bibbia era vietata o si raccomandava perlomeno di guardarsene, per prudenza. Ora, ecco la “lectio divina”, i corsi biblici, gli incontri per i lettori, i laici insomma con la sacra Scrittura in mano. La ‘cassaforte’ è stata dissigillata, grazie al Concilio Vaticano II che ha aperto un tempo sorprendente, in cui la Bibbia è potuta diventare in larga misura ‘il libro della Chiesa’ : «Affinché la mensa della Parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia, di modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la parte più importante delle sante Scritture » (“Sacrosanctum Concilium”, n. 51). Cento e più sforzi sono stati fatti, mille sono ancora da compiere: ad esempio, per migliorare sia i commenti proposti dai libri che le proclamazioni fatte agli amboni; senza escludere la pazienza di vincere le ‘resistenze’ e le obiezioni a nuove traduzioni o letture e lezionari. Detto tra noi: è proprio vero che certe pagine bibliche - per la loro presunta ‘astrusità’ - sarebbe stato meglio non offrirle alla gente sulla tavola della Parola? Ma Dio è venuto a dirci delle cose ‘astruse’?




      Comunicare con una lingua “viva”

      Abbiamo certamente imparato di più l’arte del comunicare mediante la parola anche nella liturgia, da quando i testi liturgici furono tradotti nella lingua corrente. Chi ha sulle spalle parecchie primavere ricorda sorridendo gli strafalcioni abituali nell’uso del latino durante le ufficiature per i vivi e per i morti. Ma ahimè, la lingua italiana che da quegli strafalcioni ci ha liberato, non ci ha messo al sicuro da altri più o meno gravi (sicuramente più palesi) nel proporre la “parola”: quella di Dio e quella della Chiesa. Se testi come il «Gloria in excelsis Deo» o il «Credo in unum Deum», come «Sursum corda - Habemus ad Dominum» o «Confiteor Deo omnipotenti» bastava che si dicessero (comunque fossero detti), o che il celebrante li cantasse anche se ‘stonato’ (e comunque doveva cantarli), oggi, tradotti e detti o cantati in italiano, non basta più! La lingua viva richiede che quel che si dice sia detto in modo tale che “comunichi il senso”. Questo, perché avvenga (e, grazie a Dio, avviene frequentemente), ha bisogno di una costante cura del “dire”, più attenta e più varia.  Un tempo, era sufficiente ‘masticare’ il latino, senza troppa preoccupazione di conoscerlo o di farlo comprendere più di tanto; oggi, si sente necessaria - appunto - l’arte del comunicare e del dire. Nel chiedere quest’‘arte’ l’Ordinamento generale del Messale è minuzioso ed esigente, a partire dalla “voce alta e chiara” : «Nei testi che devono essere pronunciati a voce alta e chiara dal sacerdote, dal diacono, dal lettore o da tutti, la voce deve corrispondere al genere del testo, secondo che si tratti di una lettura, di un’orazione, di una monizione, di un’acclamazione, di un canto; deve anche corrispondere alla forma della celebrazione e alla solennità della riunione liturgica. Inoltre si tenga conto delle caratteristiche delle diverse lingue e della cultura specifica di ogni popolo» (n. 38). Le richieste sono severe, per chi ‘serve’ alla tavola della Parola in favore dei ‘commensali’. Lettori e presidenti di assemblea, voci-guida, salmisti, cantori sono chiamati a rispettare la natura sia dei testi che dei propri interventi. Da essi, in massima parte, dal loro ‘comunicare’ con arte dipende il ‘celebrare’ con arte di cui abbiamo parlato. Pensiamo, esemplificando, al compito - e ad una certa ‘fatica’, senza deroghe per nessuna Messa - del sacerdote ogni volta che dice o canta la Preghiera eucaristica (quanta fretta, sovente, e che monotonia!). Dei lettori, diremo più avanti; basti qui il compiacimento e l’incoraggiamento per i corsi di ‘dizione’ e più in genere di ‘formazione’ ad essi destinati. Il corretto uso della voce e la necessaria alternanza dei generi del linguaggio liturgico nella medesima azione rituale non sono perlopiù delle capacità che ciascuno si porta dalla nascita; e neppure purtroppo, a quasi cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, un fatto molto diffuso. Ce n’è di strada, ancora - e ce ne sarà sempre - per vedere e sentire tradotto nella pratica l’assioma: «Una lingua non è viva di per sé: è viva se la si fa vivere!».



      Proclamare una Parola “donata”

      È una sorprendente responsabilità quella affidata ai lettori, e in genere agli ‘addetti’, ai ‘servi’ di tutte le parole, divine e umane, da proclamare nella liturgia. Val la pena ricordare il profeta Ezechiele: «Quando ti parlerò, ti aprirò la bocca e tu riferirai loro: “Così parla il Signore Dio”» (3, 27). Si tratta di ‘dare in prestito’ al Signore la propria voce: egli «è presente nella sua parola, poiché è lui che parla quando nella chiesa si leggono le sante Scritture» (“Sacrosanctum Concilium, n. 7). Il lettore riceve con tutto il Popolo di Dio il dono della Parola e insieme è chiamato a farsi donatore della Parola. Allora, pensare al come dire questa Parola (pensiero che, in una naturale timidità, può indurre anche a inflessioni vocali artificiose) deve venire dopo l’immettersi nel cosa dice questa Parola (a me lettore e a chi mi sente proclamare il testo sacro). ‘Penetrare’ la Parola è un fatto persino liberante dall’ ‘ansia’ nel leggere cercando di ‘dire bene’; uno dei migliori consigli che si possano dare nel corso d’un impegno di formazione, è proprio questo: «“Entra” nella Parola di Dio: lascia che essa (che Egli) “ti prenda”!».

    Prima di leggere. La ‘spiritualità’ deve precedere e accompagnare la ‘comunicazione’; giusta la massima (scritta sulle pareti di un monastero): «Si cor non orat, invanum lingua laborat» - Se il cuore non prega, invano si affatica la lingua. Cosicché, la ‘buona’ proclamazione delle letture richiede un anticipo di ‘visione’ dei testi e possibilmente un momento di meditazione individuale o di gruppo. Dalla spiritualità alla tecnica: ancor prima di salire all’ambone, è buona cosa che si pensi al ritmo da tenere nella lettura (‘velocità’), che si individuino le pause (‘articolazione’), che si consideri il tono da tenere (con opportune varianti di elevazione e di volume della voce).

    Mentre si legge. Intanto, già l’andare all’ambone per la proclamazione fa parte dell’atto di lettura. Come accedere? La sobrietà del portamento - abito compreso -  è indice dell’accuratezza liturgica da offrire a Dio e all’ascolto della sua Parola. Da dove avvicinarsi? È bene che i lettori concordino il posto che si lascia per accedere all’ambone (il presbiterio o la navata). Quando muoversi? Non prima che il celebrante abbia concluso l’orazione e l’assemblea abbia risposto con l’Amen, o che sia terminato il salmo responsoriale col proprio ritornello. Troppo spesso si vedono ministranti o animatori in movimento durante le azioni rituali (soprattutto ‘presidenziali’: v. orazioni)), che richiedono cortese rispetto e assoluto raccoglimento. Come stare? Posando le mani sull’ambone o tenendo fra le mani il lezionario, curando una postura semplice e tranquilla. Guardare l’assemblea?  Prima di iniziare la lettura o mentre si annuncia il ‘titolo’; ma anche, talvolta, durante la proclamazione, se lo sguardo può servire ad un ‘aggancio’ comunitario o a qualche ‘sottolineatura’ del testo. Ovviamente, nessun lettore deve proclamare il testo scritturistico, leggendolo su un ‘foglietto’ elevato sopra il lezionario.

    Dove si legge, all’ambone, ci sia quell’ordine mai raccomandato a sufficienza innanzi tutto per l’altare, cuore locale della celebrazione, su cui spesso vengono deposti oggetti vari del celebrante, o portati come “offerte” [?] alla presentazione dei doni. Anche l’ambone non sia il ‘deposito’ di fogli, quaderni, libri dei canti, e quant’altro.

    Cosa leggere. Dall’ambone vanno proclamate soltanto le letture (in cui Dio ‘comunica’ e ‘si comunica’), il salmo responsoriale (il ritornello può essere intonato e sostenuto altrove da un cantore o dal coro) e il preconio pasquale (il canto per eccellenza della Veglia). All’ambone si può leggere anche la preghiera dei fedeli (la solenne implorazione a chiusura della liturgia della Parola). Si eviti di porsi all’ambone per comunicare avvisi o per proporre e guidare i canti dell’assemblea: per questo ultimo ruolo è bene disporre di un altro luogo (di un apposito leggio), il più alla vista di tutti.

    Come… non leggere. Ci riferiamo ad uno stile di “pronuncia” da evitare nel proclamare una parte non secondaria della liturgia della Parola: il salmo responsoriale. C’è da ribadire che esso non è una specie di ‘lettura in più’, ma è un ‘brano poetico’ - una poesia, posta da Dio stesso sulle nostre labbra per pregarlo, lodarlo e ringraziarlo di ciò che va dicendoci - tanto importante che un tempo veniva eseguito da un cantore esperto, il salmista, quasi ‘primo cantore’. Perciò si esegua in canto almeno il ritornello, e poi non ci si arrenda sempre nel lasciare alla semplice lettura i versetti del salmo! Comunque esso venga proclamato (anche solamente letto), il salmista si impegni ad usare un tono che sia il più ‘poetico’ possibile e che si differenzi da quello ‘normale’ delle letture. La differenza sia rilevata anche dal cambio di voce: il lettore del salmo non sia il medesimo che ha proclamato la prima lettura.



      Sediamoci alla tavola della Parola con amore. Merita, al riguardo, di essere citato un passaggio della «Lettera ai cercatori di Dio» (Conferenza Episcopale Italiana - Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi – n. 12): « C’è un profondo bisogno di amore in ciascuno di noi, così spesso prigionieri delle nostre solitudini. È il bisogno di una parola di vita che vinca le nostre paure e ci faccia sentire amati. Il profeta Amos descrive con efficacia questa situazione: “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (8, 11). E sant’Agostino – che quella Parola ha incontrato, fino a farne la ragione di tutta la sua vita – così presenta la risposta del Dio vivente al nostro bisogno: “Da quella città il Padre nostro ci ha inviato delle lettere, ci ha fatto pervenire le Scritture, onde accendere in noi il desiderio di tornare a casa” (Commento ai Salmi, 64, 2-3)».

Don Giancarlo Boretti   

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