L’impiego del cancello o della transenna è da considerare una soluzione al problema posto dall’ambivalenza del culto cristiano cui prima si faceva accenno. Questo tipo di separazioni da un lato permetteva di allontanare dal mistero i non perfettamente iniziati e di proteggerlo da essi, d’altro lato consentiva la visibilità dei riti liturgici, che per loro natura sono pubblici. Il doppio volto di questi elementi preposti a separare e insieme a collegare spazi di natura differente è rivelato anche dall’incerto etimo del termine “transenna”. Abituati a considerarlo come identificativo di un oggetto atto a dividere e separare, questa parola deriva in realtà dal verbo latino transeo suggerendo così un transito, un passaggio piuttosto che un impedimento. Questo vocabolo si trova usato in questa accezione nell’antichità per indicare, ad esempio, un’apertura come un lucernario. Forse dovremmo cercare il senso ultimo di questa parola proprio nel suo antico uso con riferimento ad elementi che lasciano filtrare la luce o lo sguardo, come si diceva di placche di ceramica traforate o come scriveva Cicerone: ”Quasi per transennam adspicere”, vedere ‘come attraverso gelosie’. E così doveva essere anche per il cristiano dell’antichità, il quale, entrando da neofita nella comunità dei credenti, attendeva nello studio e nella preghiera fuori dal luogo in cui si compiva il Mistero, poiché non era ancora pronto né degno per assistervi; poi, dopo l’esorcismo rigeneratore del battesimo, era potuto accedere al luogo del culto e così anche i suoi sensi avevano cominciato ad aprirsi alla percezione del sacro e ne udiva il suono nei canti e nelle letture della Parola; infine, poteva accostarsi al miracolo eucaristico e fondersi col suo dio mentre l’intero svolgimento della santa liturgia si offriva ora ai suoi occhi; tuttavia la pienezza della visione, la percezione immediata della gloria e così la comprensione del mistero sapeva di poterla raggiugere soltanto alla fine dei giorni: per ora i suoi occhi avrebbero potuto certo vedere il divino, ma solo attraverso uno schermo, solo attraverso il filtro della materia caduta, come secondo la metafora paolina.
Dopo il III sec. l’impiego di elementi di recinzione divenne sempre più ampio e già il Liber Pontificalis e l’Ordo Romanus I parlano di ‘rugae’ trasferendo la denominazione data al corridoio processionale centrale presente in molte chiese agli stessi elementi che lo recingevano dei quali ci sono pervenuti anche molte testimonianze materiali. Tuttavia prima del VI sec. queste transenne dovevano essere fatte principalmente di legno e di metallo, soltanto successivamente cominciano ad apparire recinzioni lapidee o comunque stabili nella chiesa d’Occidente. Queste si articolano subito intorno a tre tipi fondamentali: transenne murarie affrescate, le quali scomparvero presto; lastre marmoree opache o traforate; colonnati architravati con plutei cioè le pergulae.
Il tipo della pergola e l’elemento della lastra forata sono molto interessanti per le evoluzioni seguenti che portarono fino alle soluzioni più recenti. L’elemento della lastra traforata è comprensibile soltanto se si tiene in considerazione l’importanza che doveva avere l’illuminazione nelle chiese cristiane durante le liturgie. Se dei primi luoghi di culto non è possibile dire qualcosa di certo perché la ristrettezza dello spazio e delle risorse non poteva permettere un uso troppo ricco e complesso dei mezzi d’illuminazione, certamente nei grandi ambienti delle prime chiese l’illuminazione della liturgia doveva essere particolarmente curata se durante le successive persecuzioni i funzionari romani poterono sequestrare un gran numero di lucerne e lampade.
Nonostante l’altezza della grande navata, nelle basiliche la luce non doveva essere così abbondante: le navate laterali erano quasi nel buio, mentre le alte finestre della navata centrale, collocate di norma in corrispondenza di ogni intercolumnio, erano schermate da grate costituite anch’esse da lastre lapidee forate, da lastre di alabastro o anche da vetri colorati, e certamente si può meglio comprendere l’espressività delle transenne traforate tenendo presente qual’era la distribuzione luminosa nelle chiese. Poste tra gli altari e gli ambienti circostanti quelle transenne rimarcavano ed in parte accentuavano la differenza di luminosità, facendo penetrare attraverso i loro trafori la luce degli altari nello spazio intorno ed anche valorizzando così la qualità dell’intaglio di questi manufatti, i quali, nati per quei contesti, richiederebbero proprio tali condizioni ambientali per essere adeguatamente apprezzati.
Col passare dei secoli e la maggiore regolamentazione degli istituti monastici che si andavano diffondendo in tutta Europa, divenne spesso una necessità dare ai presbiterî una struttura che permettesse ad un grande numero di religiosi, solitamente monaci e poi frati, di assistere alle sacre funzioni e di recitare l’ufficio cantato insieme senza essere eccessivamente distratti o disturbati dalla vista del popolo. A mano a mano dalle aree recintate dei presbiterî si venne distaccando quello che sarà il coro, che si porrà quindi di fronte al presbiterio e spesso circondato da veri e propri muri, creando a volte tra i fedeli e l’altar maggiore una separazione insormontabile, al punto che si soleva innalzare fuori dal coro un altro altare per la liturgia del popolo detto altare della croce. In realtà già da un’epoca non ben definita tra il IV e il VI sec. sappiamo che la schola cantorum trovava posto dinanzi al presbiterio in un area allargata del solea, il percorso processionale rialzato e transennato che conduceva frontalmente al presbiterio (da ‘solum’ suolo rialzato), perciò anche con i cori monumentali successivi i chierici cantori non fecero che continuare ad occupare quella che era ormai la loro collocazione naturale, sebbene vi alzarono intorno alti muri. È importante però rilevare che, a nostro giudizio, non si deve intendere questo muro come una evoluzione dei cancelli o delle antiche transenne, e a sua volta come un antenato delle successive divisioni. In realtà i vecchi recinti non furono di norma eliminati come se si ritenesse la loro funzione ormai sostituita dai muri dei cori; al contrario, le separazioni tra i presbiterî e il resto della chiesa, cori compresi, tesero a potenziarsi, che fossero transenne o che fossero cancellate. Durand specifica che le transenne servono a separare l’altare dal coro, e “rappresentano la separazione che ci deve essere tra le cose della terra e quelle del cielo”, e aggiunge che in tempo di Quaresima, tranne che nelle domeniche, si pone un velo fra l’altare e il coro, per non mostrare quello che si trova nel Santo dei Santi, e allora “solamente un piccolo numero di sacerdoti entra dietro il velo che nasconde il santuario”. Inoltre all’interno del presbiterio, dietro il primo velo, se ne trovava un altro: infatti l’altare era spesso circondato ai lati da una cortina di drappi che nascondeva parzialmente il sacerdote officiante costituendo così un’ulteriore divisione. Altre volte non erano semplici veli a contornare l’altare, ma un’altra transenna stabile, come in numerosi esempi d’inizio Cinquecento ancora visibili. Tuttavia nella maggior parte delle parrocchie collegiate, dove cioè risiedeva un clero diocesano non numerosissimo con obblighi di vita comune ma non monastica, il coro non assunse forme così monumentali come quelle dei grandi conventi. Spesso in questi casi il clero continua a risiedere tutto nel presbiterio trasformando le strutture del tipo originario della pergola in una sorta di coro semiaperto.
La reazione che la Chiesa Cattolica si trovò a dover attuare all’indomani della riforma protestante e dopo il Concilio di Trento non poteva prescindere da un maggiore coinvolgimento del popolo nelle pratiche liturgiche finalizzate ad imprimere maggiormente negli animi la devozione per quei punti principali della dottrina ortodossa contestati dalla nuova eresia, e tra questi principalmente la presenza reale di Cristo nella SS. Eucaristia; altra necessità era quella di dover restituire autorità al clero e di evitare commistioni tra clero e laicato tali da poter creare confusione di ruoli. Molto spesso queste tendenze manifestate dai nomi più autorevoli del Concilio comportarono nel clero sia secolare che regolare una maggiore austerità di vita ed una separazione ancora maggiore dal popolo che si concretizzò, per quanto ci riguarda, in un movimento diffuso di creazione di retrocori realizzati alle spalle dell’altar maggiore e quindi completamente separati dall’aula dei fedeli.
In effetti i cori precedenti, soprattutto quelli ‘aperti’ delle piccole collegiate, rappresentavano una divisione minore di quanto si può immaginare, poiché erano probabilmente spesso permeabili, sia al passaggio dei fedeli, sia ai loro sguardi, che quando volessero spingersi fino alla cappella maggiore dovevano necessariamente attraversare il coro. Essi erano inoltre d’ostacolo alle rinnovate pratiche legate all’Eucaristia, che prevedevano un afflusso di popolo per l’adorazione del SS. Sacramento che passava ora attraverso il senso della vista. La soluzione del retrocoro eliminava questi problemi: ora la vista dell’altare era libera e allo stesso tempo il clero poteva compiere i suoi uffici senza disturbo e senza commistioni con i laici, nascosto alle spalle di altari sempre più monumentali. È importante tuttavia sottolineare che non vi fu alcuna disposizione data dal Concilio circa la demolizione dei cori e anzi il cardinal Carlo Borromeo, considerato spesso precursore dell’attuazione del Concilio, non soltanto non sembra auspicare la demolizione dei cori, ma anzi li considera ancora elemento ordinario e legittimissimo; ed anche le visite apostoliche raramente ne richiedono l’eliminazione.
Quando i cori in navata scomparvero dalle chiese monastiche non scomparvero però le separazioni che dividevano il presbiterio dai cori e ora dal popolo, tuttavia anch’esse subirono trasformazioni non irrilevanti. Dalle istruzioni di San Carlo si ricava anche che non solo erano ancora presenti nelle chiese cancelli di legno a chiudere le cappelle, cosa che lui accetta in via secondaria, e vi erano pure recinti intorno ai singoli altari come già all’epoca di Durand, ma la maggior parte delle chiese era ricca di inferriate piuttosto alte poste sui gradini dei presbiterî. Lo stesso Borromeo continua a suggerire questa soluzione per costruire le separazioni tra i diversi ambienti della chiesa, delle quali rimarca la necessità; aggiunge però che qualora vi siano difficoltà nel reperimento del ferro, per “ornare” le cappelle potranno farsi delle ‘columnellae’ marmoree o comunque di pietra solida che sono dette ‘balaustrio’ e che devono essere sormontate da una cornice. È in quest’epoca infatti che si vanno diffondendo quelle che noi ancora conosciamo col termine balaustrate o balaustre, cioè la disposizione seriale di elementi bilobati a forma di balaustro tra una base ed una cornice.
Nonostante Borromeo scriva che questa recinzione sarebbe servita per separare ed ornare la cappella, sappiamo però che essa avrebbe avuto anche un altro uso. A partire dal XIII sec. circa si cominciò a somministrare la comunione ai fedeli stendendo davanti a loro una tovaglia sorretta da due accoliti affinché non andassero persi frammenti dell’Eucaristia; più tardi questa tovaglia venne appoggiata su dei banchi appositamente sistemati. Quando dopo il Concilio si cominciarono a demolire i cori e si diede nuovo assetto ai presbiterî, fu quella l’occasione giusta per accorpare il banco per la comunione con la transenna divisoria della cappella. Il nuovo elemento, quindi, doveva avere anche la larghezza sufficiente per costituire un piano d’appoggio per i fedeli inginocchiati le vecchie transenne, limitandosi ad essere delle lastre verticali per separare due ambienti, a volte non avevano tale spessore necessario, altre volte erano di altezza eccessiva per questo uso, come si può ancora vedere dagli elementi superstiti. Il sopraggiungere di questa nuova funzione, davvero molto importante per lo svolgimento della liturgia, deve avere effettivamente rivoluzionato la percezione degli elementi di recinzione: nonostante la loro funzione principale continuasse ad essere quella della divisione, tuttavia è difficile non scorgere nella diffusione della conformazione ‘pilastrata’, quella cioè della lastra supportata da balaustri, il prevalere di una visione funzionalista legata alla necessità di sostenere un piano d’appoggio, e tutte le balaustrate conservate hanno infatti mantenuto sopra di esse fino a tempi recenti delle tovaglie appositamente confezionate.
L’assetto determinato alla fine del Cinquecento informò tutta l’architettura chiesastica cattolica fino alla metà del secolo scorso senza cambiamenti sostanziali. Gli elementi per separare i presbiterî dall’aula rimasero affini a quelli che raccomandava San Carlo, sebbene delle cancellate restino ormai pochi esemplari. A volte le transenne, opache o traforate furono ancora preferite alle balaustre, le quali comunque divennero a mano a mano la soluzione più frequente. Le une e le altre si realizzarono prevalentemente con materiali lapidei, ma spesso anche di legno e removibili, senza in ogni caso subire evoluzioni formali ulteriori, se non quelle date dalla libertà decorativa e dalla ricchezza dell’impiego dei marmi e degli intarsi. L’apice della rilevanza architettonica e decorativa di questo elemento si vide tra la fine del XVII e la metà del XVIII secolo con la realizzazione di splendide transenne e balaustrate monumentali; per poi tornare nell’Ottocento a forme più severe ed in tutto simili ai parapetti dei balconi di qualsiasi palazzo.
Dopo la riforma liturgica del 1965 seguita al Concilio Vaticano II si vide una ondata di adeguamenti liturgici spesso più fervorosa di quella seguita a Trento. I tecnici incaricati, e molte volte i parroci in primis, considerarono la rimozione delle balaustre necessaria per adempiere alle richieste di una maggiore partecipazione del popolo alle funzioni religiose, benché nessun documento ufficiale abbia mai neanche velatamente fatto accenno alla convenienza di qualsivoglia distruzione. Le balaustre furono a volte vendute, altre volte smontate e riutilizzate, nei casi migliori semplicemente spostate, o invece distrutte nei casi peggiori ma purtroppo frequenti. Si deve ancora una volta ricordare in ogni caso che, come l’uso pratico di questi elementi fu sempre subordinato al loro valore simbolico, così anche la loro eliminazione è stata dovuta a ragioni piuttosto ideologiche che pratiche poiché, più che separare concretamente i sacerdoti dal popolo, o ancor meno il popolo dalla liturgia, essi avevano in sé la traccia delle antiche divisioni di ambiti e della demarcazione del sacro cui accennavamo inizialmente. Quando, forse per la prima volta nella storia, la stessa classe sacerdotale volle disfarsi del vecchio concetto del sacro rivoluzionandolo, non poté fare a meno di abolire proprio quelli elementi fisici che, delimitandolo, lo rendevano riconoscibile.
Andrea De Meo
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