domingo, 23 de octubre de 2011

Fondamenti Costitutivi dello Spazio Sacro 1/8

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L’introduzione ad un discorso sullo spazio sacro cristiano sembra avere oggi come naturale punto di partenza l’interrogativo con il quale Joseph Ratzinger, poi Benedetto XVI, apriva il suo libro Introduzione allo spirito della liturgia: “dopo che il velo del tempio si è squarciato e il cuore di Dio è aperto per noi nel cuore trafitto del Crocifisso, abbiamo ancora bisogno dello spazio sacro, del tempo sacro, dei simboli mediatori?” Il pontefice avrebbe risposto affermativamente, ma la sua domanda non era retorica, ed una risposta negativa ad essa è stata a volte avanzata anche in campo cattolico. Una domanda simile, ma ancora più provocatoria si ascolta a volte dalle labbra di quanti, per una concezione globalmente negativa del Sacro, considerano ogni sua manifestazione solo una suggestiva ed arretrata superstizione. Si cercherà dunque di dare una risposta alle critiche sottese alla domanda di partenza, riferendosi principalmente a studi di tipo non strettamente religioso o teologico, e si verificherà come tale approccio potrà aggiungere un supporto alle argomentazioni che il Pontefice ed altri studiosi cattolici hanno già ampiamente fornito nei loro studi sulla liturgia.


Sociologia del Sacro e sua critica
È nell’ambito degli studi antropologici ed etnografici ottocenteschi che si comincia ad indagare la natura del sacro. L’epoca in cui la secolarizzazione compie grandi conquiste e la società occidentale scopre che può organizzarsi e in qualche modo funzionare anche senza riconoscere dei diritti a Dio, è proprio dunque la stessa epoca in cui nasce un interesse laico per il sacro. Questo può sembrare contraddittorio. Non è propriamente così. Infatti la scoperta di popoli ad uno stato di civiltà primitivo, o fin’anche selvaggio, come si diceva all’epoca, impose all’uomo moderno di interrogarsi sull’emancipazione dalle strutture tradizionali che era in piena attuazione in Occidente, proprio sul quel progresso del quale aveva imparato a non dubitare, o aveva scelto di non dubitare. Soprattutto la scoperta di religioni diverse da quelle che si era abituati a conoscere, sulle quali ancora nulla era stato scritto, ancora nessuna teologia formulata, nessuna disputa, nessun bagaglio culturale preparato a guidarne o condizionarne la comprensione, sembrano aver posto per la prima volta la necessità di interpretare il fenomeno religioso in sé. L’interrogativo più naturale cui dare risposta in quel momento storico, ma pur valido ancor’oggi, è se la religione, il rendere culto, la percezione del sacro, sia implicita nella condizione umana o solamente una formula culturale, se sia il prodotto di un certo tipo di civilizzazione o un imposizione ideologica di un gruppo di uomini, come una parte della critica illuminista aveva contestato in tempi recenti.

Sarà soprattutto il Novecento a trarre il frutto che le esplorazioni e i conseguenti studi avevano maturato nell’Ottocento. Lo studio di Émile Durkheim (Les formes èlementaires de la vie religieuse 1912), pur essendo ancora di matrice strettamente sociologica e non implicando il riconoscimento di uno statuto autonomo del Sacro, fece il primo passo utile nell’indagine oggetto del nostro interesse: cominciando a prendere le distanze da una visione culturale e puramente storica della religione, egli la definì una manifestazione naturale dell’attività umana. Pur non definendo il Sacro, Durkheim offre però un’interpretazione che già supera quella critica che ancora oggi si sente avanzare, che cioè la devozione religiosa è risultato di un insegnamento o di una educazione, frutto cioè di una forma di imposizione culturale. Egli offre d’altronde il destro ad una critica più raffinata e smaliziata. Un’obiezione possibile, e più volte avanzata, è che si possa avvertire una sensazione di riverenza nei contesti religiosi perché essi coinvolgono in una dimensione sociale ed in un tipo di attività che genera queste sensazioni: cioè esse non sarebbero la manifestazione di qualcosa di oggettivo, ma il frutto di un condizionamento, non culturale ma ambientale. Ed è proprio in questa chiave che Durkheim considerava il fenomeno religioso. Egli cioè comincia a tracciare una terza via, ad abbandonare il filone positivista che vedeva la religione come un’imposizione civile: in qualche modo l’interpretazione di Durkheim trasla ad una dimensione sociale l’idea del fenomeno religioso. Ecco schematicamente come lo spiega riferendosi ai culti tribali: un componente della tribù riconosce la propria identità non come individuo, ma come gruppo, come tribù appunto, e vede manifestarsi questa identità, questo carattere nelle riunioni collettive nelle feste del gruppo, i forma tale che un solo individuo non sarebbe capace di riprodurre. A tale percezione dell’energia che si sprigiona nella manifestazione comunitaria della tribù, alcuni etnologi daranno il nome polinesiano di “Mana”. Con un transfert di potere il Mana viene forgiato in un totem ed intorno al totem nasce la prima forma di culto. Il gruppo genera il Sacro, il Sacro genera il culto. Dunque il culto sarebbe in ultima analisi l’effetto di un prodotto sociale, del quale il Sacro è il mezzo. Questa teoria sarà ampliata e resa universale a tutti i culti dai discepoli di Durkheim, Mauss e Hubert (Sociologie et anthropologie, 1950). La visione di Durkheim, che inconsapevolmente, è ancora molto diffusa oggi. Certamente si tratta di una interpretazione importante: identificare di fatto Dio con la società, come Durkheim faceva anche esplicitamente, Je ne vois dans la divinité que la société transfigurée et pensée symboliquement, ebbe notevoli ripercussioni nel Novecento. Si pensi alla mistica dei regimi totalitari e a come ancora oggi si può molto facilmente assistere a fenomeni di eccitazione di massa, molto simili a quelli che Durkheim avrebbe considerato fenomeni religiosi. In realtà l’errore di Durkheim consiste nell’aver inquadrato lo studio della religione soltanto nel contesto sociale, e non anche individuale. Sotto quest’ultima prospettiva il suo studio avrebbe portato risultati diversi. Tuttavia esso già arriva a dare alcuni ragguagli circa lo Spazio Sacro.

Proprio nelle religioni totemiche ritroviamo la prima elaborazione dello spazio sacro. Il totem in quanto concentrato del potere del gruppo e fonte di quello dei singoli (secondo questa interpretazione) si carica di energia ed è per questo terribile, temuto ed intoccabile, già qui, spiegava Robinson Smith già nel 1889 (Lectures on the Religion of the Semites) troviamo un santuario, una proprietà inviolabile del sacro totemico, un’area intorno al totem, alla quale nessuno può avvicinarsi. Questa forza infatti, questo mana, essendo incontrollabile da parte del singolo, ha bisogno di essere confinato, ristretto, concentrato in un luogo o in una attività. A questo luogo ed a questa attività andranno date regole più strette e più chiare possibili, affinché questo tipo di Sacro non possa sfuggire al controllo ed ai limiti nei quali è relegato.

Questa visione strettamente sociologica, eppure legata tuttavia ad un concetto sostanziale del sacro come Mana, una forza visibile, verificabile, è contraddetta da un'altra interpretazione, che pure parte dalle stesse analisi. Si tratta dell'opera di Roger Caillois, L'homme e le sacré, Paris 1939. Caillois sostiene che il Sacro non sia in realtà nato, non sia il risultato di un'aggregazione, di una sensazione estemporanea sebbene ripetuta e riproducibile, ma sia inerente alla visione della realtà che avevano le società pre-istoriche o mitologiche o pre-logiche. Per elaborare il suo sistema interpretativo egli prende a prestito degli studi di poco precedenti di Lévy-Bruhl che consideravano come la visione del mondo dei primitivi supponeva inevitabilmente, quasi come una struttura mentale connaturata, che la realtà fosse composta di una sfera invisibile ed una invisibile, e dove costoro percepivano l'intersecarsi delle due sfere aveva luogo il sacro, manifestantesi in luoghi, oggetti o persone.

Dunque un Sacro che si attua, per così dire, prendendo corpo da un'altra dimensione, e che non potendo essere perfettamente compreso perchè pur sempre appartenente alla sfera dell'invisibile, viene rappresentato per mezzo di simboli, segni nei quali si riconosce la sua presenza. Per Caillois il rito è il momento in cui l'uomo può entrare in contatto con l'invisibile, partecipando all’incontro della sua realtà con la dimensione del sacro. Il sacrificio, presente quasi in tutte le religioni, è a questo punto il mezzo privilegiato: offrendo qualcosa all'invisibile, o meglio togliendo questa cosa  dalla sfera del profano, attraverso un atto di pretesa tramutazione, essa diviene da proprietà dell'uomo proprietà dell'invisibile, qualcosa dunque che l'uomo ha potremmo dire in comune con la  potenza invisibile. Gli studiosi che hanno interpretato i riti in questa chiava hanno notato come  questo contatto si assicura per mezzo di processi che si svolgono come un passaggio di una soglia. Anche nell'opera di Caillois ricorre questa insistenza sul concetto di entrare-uscire, mantenere le  distanze, trasmutare. Per schematizzare egli introduce una chiave di lettura: il profano sarebbe il mondo delle nature fisse, il sacro sarebbe un mondo indistinto in cui si spazia dal positivo al negativo, egli finalmente parla di santità e sozzura, Santità il sacro benefico, sozzura il sacro malefico.

Questa idea di limite ricorrente dell’opera di Caillois, avvicina gli studi di questo autore ai primi studiosi religiosi del fenomeno del Sacro, i quali solitamente la manterranno nelle loro interpretazioni.

Un pastore protestante teologo, Nathan Soderblom enuncia nella sua definizione di Holiness nell'Encyclopedia of Religion and Ethics del 1913, che: “Non esiste alcuna religione reale senza la distinzione tra sacro e profano”. Nei suoi studi Soderblom tende a sottolineare come l'impostazione sociologica degli studi sul sacro sia mal fondata: essa nasce dal rifiuto del mondo religioso, come mondo derivato e quindi posteriore, diviso dal sacro, che sarebbe invece anteriore ed a sua volta una formalizzazione di uno stato delle relazioni sociali che si vuole evidentemente rintracciare in maniera aprioristica in una società arcaica e preistorica a volte idealizzata. Secondo quelle interpretazioni sociologiche delle quali dicevamo, il fenomeno del religioso sarebbe un modo per  codificare il sacro, in qualche misura la sua antitesi, il suo opposto che lo neutralizza. Per Soderblom non è così: il religioso, il culto, i riti, hanno la loro radice proprio nel sacro e, con esso, nella sensazione di stupore di fronte allo sconosciuto assoluto. Soderblom dunque compie attraverso il suo contributo due operazioni fondative: da una partericongiunge la religione al sacro permettendo il ritorno dei culti al loro ambito di origine debellando così il dualismo tra sacro spontaneo dei primitivi ed sacro indotto e artificiale delle religioni storiche, e dall’altra individua un aspetto estetico della manifestazione del sacro: lo stupore si fa artefice di un culto.

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