Dedichiamo qualche parola ai ministeri
liturgici laicali. Della loro importanza si è parlato (e si deve parlare
ancora di più) sia per la crescente mancanza di clero che, innanzi tutto, per
la natura ‘sacerdotale’ propria dei laici in ragione del sacerdozio comune o
battesimale. In causa sono chiamati i gruppi liturgici parrocchiali, le
commissioni liturgiche decanali e tutti gli animatori della parola e della
musica nella liturgia, che devono ricevere e si devono dare una costante
premura formativa. Come di un fuoco che tende ad affievolirsi o a spegnersi se
non persistentemente alimentato, così avviene dell’animazione e della stessa vita
liturgica nelle assemblee e nelle comunità cristiane, se “cede” la formazione degli animatori a tutti i
livelli e in tutti i ruoli: lettori, commentatori, cantori, direttori di coro,
strumentisti, addetti all’accoglienza e al servizio, ministri straordinari
della comunione eucaristica.
È pure il caso di dire (oggi forse in
particolare): della formazione si avverte l’urgenza in proporzione con la sua
carenza, più o meno colpevole. Mi sovviene, poi, l’espressione raccolta dalle
labbra di un vicario pastorale diocesano: «Sempre in salita, la vita!». Più che
di un lamento, si tratta di una constatazione - per altro estensibile a tutto il
cammino della vita cristiana - che sollecita a non fermarsi mai (sia pure in
una pazienza fiduciosa) anche da parte e nei confronti degli animatori della
liturgia: essi avranno sempre a che fare con la tentazione dell’improvvisazione
(suggerita magari da uno zelo poco illuminato), del pressappochismo (a danno
dei riti e di un accostamento profondo al mistero), di una velata pigrizia (“Tant’è,
ormai i giochi sono fatti!”) o di un certo disimpegno (“C’è dell’altro - o c’è
troppo - da fare!”). A costo di essere semplicisti, diciamo: sono necessari il fare bene e il fare insieme, cui aggiungiamo il lasciar fare. Un numero della “Rivista di Pastorale Liturgica”
(6/2009) titola, un poco provocatoriamente: «La liturgia che verrà?». Vorremmo
rispondere con un punto esclamativo: «… Dipenderà dai preti e ancor più dai
laici!».
Nel fare bene è da includere
innanzi tutto un impegno di educazione quasi “scolastico”, con tempi formativi
sufficientemente lunghi e periodici. Per tutti gli animatori in genere sono da
privilegiare le proposte diocesane (giornate e corsi ricorrenti durante l’anno
pastorale); per i lettori gli incontri parrocchiali; per gli operatori della
musica le Settimane residenziali (organizzate da associazioni a livello
nazionale), gli Istituti musicali e le Scuole diocesane. Per il canto e
specialmente per gli strumenti musicali è ovvia la necessità di uno studio
prolungato nel tempo, non poco faticoso e perciò assai spesso disatteso: lo
dimostra la mancanza di organisti e di ‘buoni’ chitarristi! Da parte del clero
vi è una sollecitazione e si dona un sostegno sufficiente? Anima motrice della
formazione permanente deve essere il gruppo
liturgico parrocchiale, variamente costituito (perché non con la presenza
di qualche catechista e di qualche membro del servizio caritativo?) e
costantemente attivo (anche nei suoi incontri periodici).
A proposito
del “fare bene” non spiaccia un accenno al “fare economico”! Così recita una
mozione proposta in un Consiglio presbiterale diocesano: «Ogni parrocchia deve
preoccuparsi di avere persone sensibili nel campo del canto liturgico in specie
e della musica in genere, sostenendo, anche economicamente, la loro
preparazione sia liturgica che musicale e lo svolgimento del loro ministero.
Anche la cura - il restauro o l’acquisto - dei necessari strumenti musicali o
sussidi (…), non temendo di investire con oculatezza anche dal punto di vista
economico in questo settore, è indice di una seria valorizzazione e promozione
ministeriale». È il caso di sottolineare che questo aspetto “economico” è
spesso un punctum dolens nell’insieme delle attività pastorali. L’assenza al
riguardo di soluzioni appropriate e giuste - nei confronti in genere di tutti
gli animatori (meritevoli di più ‘cordiali’ attenzioni da parte dei loro preti)
e in specie di quelli che hanno profuso fatiche e denaro per la propria
professione musicale - è segno di noncuranza pastorale oltre che di insensibilità
umana. Sempre salvi, naturalmente, il valore e l’accoglienza del volontariato,
come in molti altri campi della vita comunitaria.
Il “fare bene” non potrà non essere accompagnato dal fare insieme: i laici con i loro presbiteri; questi specialmente con i più stretti
collaboratori laici. Nell’esercizio del ministero loro affidato, i presbiteri
devono vivere come fratelli in mezzo ai fedeli la responsabilità ricevuta di
guide e di pastori. Soprattutto negli incontri formativi la presenza del prete
“in mezzo” agli animatori è indispensabile oltre che desiderata, sia per quanto
egli ritiene utile o doveroso chiedere e proporre che per una paziente crescita
nella co-elaborazione e nella corresponsabilità. Al riguardo, corrono lamentele
circa un sentirsi ‘abbandonati’ dai propri sacerdoti nella formazione
liturgica, nella scelta delle linee pastorali, nello svolgimento di un
ministero particolare (vedi gruppo liturgico, direttore del coro, ministro
straordinario della comunione eucaristica) o nell’attuazione di iniziative che
esigono una presenza qualificante “in spirito e verità”. Pur comprendendo
situazioni che possono intralciare un rapporto stretto fra clero e laici, c’è
sempre da chiedersi: quali sono le “cose da fare” più importanti e quelle da
fare “insieme”? Come crescere in un dialogo pastorale efficace, in un clima di
comunione cordiale?
Aggiungiamo due parole anche su un lasciar fare, negativo e positivo, agli animatori liturgici. C’è
un “lasciar fare” scorretto, quando
per esempio nel servizio dei lettori si permette un avvicendarsi qualsiasi di
persone non capaci per natura o per impreparazione; quando nella scelta,
nell’esecuzione e nell’accompagnamento dei canti (da parte degli adulti o dei
giovani) occorrerebbe un più serio discernimento con degli orientamenti chiari,
con delle proposte e con delle correzioni - anche con dei “no” - da parte del sacerdote
responsabile o celebrante. Un certo “lasciar correre” nella celebrazione
liturgica è una deriva diffusa e pericolosa, benché a fin di bene (“Bisogna
attirare, accontentare e non perdere giovani e adulti”), o per incompetenza
musicale (Io non mene intendo”), o peggio - come già detto - per trascuratezza
liturgica (“C’è dell’altro a cui pensare”). La virtù evangelica della
correzione fraterna va esercitata in ogni ambito pastorale: nella liturgia,
innanzi tutto e da parte dei preti.
Ma c’è anche un “lasciar fare” corretto, fondato sulla fiducia a uomini e donne in servizio di
animazione, spesso molto dotati e assai preparati (magari dopo un articolato
curriculum formativo), capaci di sostenere con “sapienza celebrativa” le
celebrazioni parrocchiali; essi meritano ascolto e giusta libertà di azione
nell’armonia di progettazioni concordate. Cammin facendo qualche rischio lo si
correrà insieme e non mancheranno sbagli, ma ciò non deve portare a chiusure o
addirittura a steccati.
Se S.
Ambrogio commentasse la suaccennata ‘monizione’ liturgica di un Consiglio
presbiterale diocesano, forse ci offrirebbe una sua pregevole opera in più (un
“Trattato su…”), chiamando in causa con
mite fermezza e preti e laici, lui che in qualche parte ha scritto: «Non
crediate che sia una virtù da poco sapere in quale modo pregare»! Chissà che
cosa ci direbbe non solo di ‘unità pastorale’ ma anche di ‘unità liturgica’, e
di ministeri liturgici laicali.
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