A Nicea, nel 878 —nel medesimo luogo in cui nel 325
il primo concilio ecumenico dichiarava che Cristo è consustanziale a Dio Padre,
contro le deviazioni di Ario—, la Chiesa
sottolinea la rappresentabilità di Cristo, di Maria, dei Santi.
Sommando, per così dire, i due concili niceni, la Chiesa dichiara la
rappresentabilità di Cristo, vero Uomo e vero Dio.
Ogni vedere risulta dunque esaltato dalla certezza
che su questa terra, gettando ombra come ogni corpo, si è offerto agli sguardi
umani, il corpo vero di Gesù, Verità incarnata. E poco conta se qualche artista
veramente l’abbia ritratto, ciò che conta è questa possibilità di
rappresentarlo.
Possibilità che l’arte sacra deve raccogliere e
sublimare, servendo quel rito e quel culto che sono sacri, perché in essi
ritorna, nascosto (non avvertibile, invisibile) nelle specie del pane e del
vino, il corpo vero di Gesù[1].
In un
certo senso, l’opera d’arte, e tanto più l’opera d’arte sacra, assolve il non
facile il compito di sollevare, anche se per pochi istanti, il velo della
nostalgia e di farci vedere, anche se imperfettamente, il volto dell’amato[2]. Come l’emigrante
che, nella solitudine della lontananza, alla fine della giornata, quando tutto
assume proporzioni diverse e l’oscurità insidia la vedibilità del creato, per
fuggire i “fantasmi” dello scoramento, mosso dalla nostalgia, guarda in una
vecchia foto gualcita dal tempo, il volto dell’amata, e guardandola aumentano
insieme il desiderio e la speranza del ritorno a casa; così l’homo
viator nell’esilio della vita, può portare con sé, nella tasca vicino al cuore, l’immagine dell’Amato, quel ritratto che gli fa ricordare dov’è
“realmente” la sua vera famiglia, nella Patria in cui ciascuno desidera,
infine, approdare.
di Rodolfo Papa
[1] La Gallo istituisce una
“certa analogia tra sacramenti e immagini sacre”: “Anche l’icona appartiene in
qualche modo all’economia sacramentale, che si fonda sulla divina incarnazione.
Le cose che servono per i sacramenti, acqua, vino, pane, cambiano natura per
una scelta di Dio, divengono tramite di operazioni divine. Le cose che servono
a realizzare un’immagine sacra, cose materiali ed elementi espressivi di
sensibilità, arte, cultura, tecnica, una volta soggiogate realmente
dall’obbedienza della fede, anch’esse, in qualche modo, cambiano natura,
diventano annuncio efficace del mistero cristiano e insieme mezzo di comunione
di ciascun battezzato con questo mistero e con tutte le persone in esso
coinvolte in cielo e sulla terra, in Dio e nell’universo creato, nel secolo
presente e nell’eternità creata” Gallo,
op. cit., pp. 23-24.
[2] Plinio al capitolo XXXV
della sua Historia Naturalis
riferisce un racconto sull’origine della pittura e della scultura, in cui si
evidenzia come l’arte nasca dalla volontà di mantenere presente il volto della
persona amata: “Butade Sicionio, vasaio, per primo trovò l’arte di foggiare
ritratti in argilla, e questo a Corinto, per merito della figlia che, presa
d’amore per un giovane, dovendo quello andare via, tratteggiò i contorni della
sua ombra, proiettata sulla parete dal lume di una lanterna; su queste linee il
padre impresse l’argilla riproducendone il volto; fattolo seccare con gli altri
oggetti di terracotta, lo mise in forno e tramandano che fu conservato nel
Ninfeo finché Mummio non distrusse Corinto” Plinio,
Storia naturale, Einaudi, Torino 1988,
pag. 473.
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