“Tutti gli artisti, poi, che guidati dal loro
ingegno intendono glorificare Dio nella santa Chiesa, ricordino sempre che la
loro attività è in certo modo una sacra imitazione di Dio Creatore e che le
loro opere sono destinate al culto
cattolico, all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli”[1].
L’attività dell’artista è dunque “in certo modo» una sacra imitazione di Dio Creatore,
ovvero la creazione artistica umana è “analoga” alla Creazione divina, seppure
con l’infinita distanza presente in tutte le sfuocate analogie[2] con cui gli uomini
parlano di Dio.
A partire dalla creazione artistica noi possiamo
capire in qualche modo la Creazione divina, così come a partire dal nostro modo
di conoscere e amare possiamo dire che Dio, infinitamente, conosce e ama.
La peculiarità della creazione artistica non è mai
sfuggita all’attenzione di chi ha tentato di parlare filosoficamente di Dio.
Anche nel Medio Evo, quando le arti figurative ancora erano escluse dal novero,
più nobile, delle arti liberali, ed erano definite arti servili[3], pure l’agire dell’artifex (artifex creatus) per analogia era usato per parlare dell’Artifex divino. Olgiati sottolinea che
questo uso analogo del termine testimonia
come sia riduttivo tradurre l’artifex
medievale esclusivamente con
“artigiano”, riduzione che peraltro viene sovente usata per negare la
consistenza teoretica e l’attualità dell’estetica medievale, e tommasiana in
particolare: “non bisogna stupirsi se per i nostri vecchi non vi fossero abissi
tra l’artigiano e l’artista. Artigiano era
stato Gesù, il Maestro; ed anche a proposito di Dio, si poteva e si doveva
parlare di ars nel senso generale sopradescritto:
‘Eorum omnium —insegnava S. Tommaso— quae a Deo in esse procedunt ratio propria
in divino intellectu est... Ratio autem rei fiendae in mente facientis ars est; unde Philosophus dicit
(Ethic., VI, c. 5) quod ars est recta ratio factibilium. Est igitur proprie ars in Deo’. Parole, che vorrei fossero meditate, quando si
confonde ars con mestiere! S. Tommaso
non avrebbe mai detto che Dio, propriamente parlando, esercita un mestiere!”[4].
Mi sembra importante, proprio in ordine al rapporto
tra l’uomo artista e Dio creatore, riflettere qualche istante sulla definizione
aristotelico-tomista di arte: “ars est
recta ratio factibilium”, definizione che copre l’intero ambito dell’arte,
anche le arti belle, e dunque, tanto più,
l’arte religiosa e l’arte sacra.
“Ars est recta
ratio factibilium”, ovvero l’arte è la retta ragione delle cose da produrre, e entro
queste “cose da produrre” sono incluse anche le opere d’arte.
L’arte, dunque, implica un “fare” (facere), diverso dall’ “agire” (agere) in quanto transitivamente
rivolta verso gli oggetti esterni.
Per certi versi, le arti figurative rappresentano
l’arte per eccellenza, in quanto
l’oggetto esterno (l’opera d’arte) qualifica il loro “facere” come essenzialmente produttivo, poietico. L’arte è sempre
un’azione transitiva, finalizzata a qualcosa che “non” coincide con il soggetto
che fa arte.
L’arte, soprattutto, implica una ratio, una recta ratio. In altri luoghi, S. Tommaso usa l’espressione «ordinatio rationis»[5], ovvero ordinamento della ragione, in ogni modo l’arte viene
riconosciuta entro un dominio razionale,
peculiarmente umano.
L’arte è un prodotto dello spirito, è un fare
razionale, sia essa arte liberale e/o arte meccanica.
Questa razionalità consente all’artista di imprimere
una forma nella materia.
A questo può essere sinteticamente ricondotta l’azione creatrice dell’artista: a un sapere informare, in certo modo, la materia. Ciò implica, a mio avviso, una seria considerazione della “pre–meditazione” del fare artistico che non è mai, o mai dovrebbe essere, un pasticciare con la materia senza progettualità, senza finalità, senza cultura.
A questo può essere sinteticamente ricondotta l’azione creatrice dell’artista: a un sapere informare, in certo modo, la materia. Ciò implica, a mio avviso, una seria considerazione della “pre–meditazione” del fare artistico che non è mai, o mai dovrebbe essere, un pasticciare con la materia senza progettualità, senza finalità, senza cultura.
L’arte misura la propria ricchezza nella peculiarità
con cui si muove tra il particolare e l’universale, per dirla con l’Olgiati
“Quando si riesce a imitare la forma (l’universale)
mediante la materia (il particolare) —ed è ben questo il vero concetto
della mimesi aristotelica— noi abbiamo l’arte, la cui nota essenziale consiste
nella claritas, a differenza del vero
la cui natura sta nell’evidenza”[6].
L’universale, vale la pena di esplicitarlo,
altro non è che il “prodotto”
dell’attività intellettuale dell’uomo, il mezzo con cui l’uomo pensa la
realtà. L’universale è “astratto”,
termine quest’ultimo tanto frainteso e male usato, soprattutto in ambito
estetico. L’astrazione, infatti, viene sovente fraintesa con l’idealizzazione
della realtà, con un’operazione di allontanamento radicale dalla concretezza,
colpevole di poca aderenza alle “cose”. In realtà, l’astrazione è un modo
peculiarmente umano di pensare la realtà concreta.
L’arte, in quanto attività superiore umana, non
legata al solo mondo sensibile (gli animali, infatti, pur avendo una
ricchissima conoscenza sensibile, non producono arte), è sempre in un certo
modo “astratta”, ovvero implica sempre una astrazione. Per ricorrere ancora
alle limpide esplicitazioni della filosofia tommasiana operate dall’Olgiati:
“anche per S. Tommaso l’astratto, in
quanto astratto, non è arte, ossia la simplex
apprehensio, in quanto simplex
apprehensio, non è ancora attività estetica; tuttavia l’attività estetica,
non sarebbe possibile se non ci fosse l’idea da esprimere”[7]. La peculiarità
dell’arte sta nel modo con cui esprime l’universale, calandolo
nell’individualità dell’opera: nell’arte viene espresso “l’astratto mediante il concreto, la forma mediante la materia, l’universale mediante l’individuale, la simplex apprehensio intellettiva
mediante l’immagine sensibile”[8].
In questa operazione, così ricca, in cui l’uomo, per
così dire, parte da una realtà individuale (la realtà conosciuta) per poi
tornare a un’altra realtà individuale da egli stesso prodotta, l’uomo agisce a
immagine di Dio Creatore.
Dio crea dal niente, la creazione è un puro atto
perfetto della sua perfetta conoscenza e volontà, l’uomo dunque, propriamente
parlando non crea, quanto piuttosto ri–crea, in quanto l’operare artistico
umano parte sempre e comunque dalle opere di Dio, dal creato. La “novità”
dell’operare artistico è una novità parziale, solo Dio è un “artista globale”: la novità delle sue opere è infatti
una reale innovazione ontologica.
Mi sembra interessante sottolineare la ricorrenza
dell’espressione “in certo modo” nei documenti conciliari dedicati all’arte.
L’uomo “in qualche modo” esprime la bellezza divina con le opere artistiche, e
la sua attività artistica è “in certo modo” una sacra imitazione di Dio
creatore. Mi sembra di poter esplicitare che l’attività artistica dell’uomo
vive nell’analogia con l’attività di Dio Creatore, e questa analogia attraversa
tutto l’operare artistico e, soprattutto, lo fonda.
L’analogia che ci consente di parlare di Dio a
partire dal creato, è il punto di vista
privilegiato per una corretta considerazione dell’arte. Essa ci consente di
sottolineare il ricchissimo aspetto produttivo e insieme l’opacità e il limite
di tale operare.
Come il concetto universale è la ricchezza e insieme
il limite del pensare umano e soprattutto ne è l’umana peculiarità —Dio non ha
bisogni di concetti: pensa l’individuale, penetra ogni realtà nella sua intima
essenza— così l’arte reca in sé alla massima potenza la ricchezza e il limite
di un “fare razionale”.
Babolin, tenendo conto anche del punto di vista
delle estetiche contemporanee, ha esplicitato tale analogia: “Per la filosofia
scolastica la creazione è una produzione, radicale e totale, di qualcosa (productio rei ex nihilo sui et subjecti).
Ora qualcosa di analogo avviene anche nella creazione artistica: c’è arte,
propriamente, nella misura in cui un’idea
informa una materia, una forma si fonda con un contenuto costituendolo
unità organica. Infine, come nella creazione Dio è sempre presente alla sua
creatura, restando però nascosto nel suo mistero di trascendenza, così anche l’artista è sempre presente alla sua opera;
e deve farlo nascondendosi, per permettere all’opera di esprimere la propria
vita e di muoversi nell’universo della storia come seme di rinnovamento vitale”[9]. Tale
considerazione, peraltro, consente di ribadire come l’artista debba sfuggire
dal puro soggettivismo, egli è l’artefice dell’opera e non ne è il
protagonista, né tanto meno è l’opera stessa. Tentativi di fare della propria
vita un’opera d’arte, si fondano propriamente sull’equivoco tra il fare e
l’agire.
L’analogia tra l’artifex
e l’Artifex fonda la possibilità di
un’arte religiosa, sulla base della “affinità esistente tra l’arte e la
creazione [...] la creazione artistica può favorire l’incontro con il Creatore,
purché non sia positivamente escluso”[10].
Del resto l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di
Dio. È dunque una corretta antropologia, insieme a una corretta gnoseologia, a
fondare una corretta estetica, e a rendere possibile un discorso vero
sull’arte.
di Rodolfo Papa
[2] Per l’espressione “sfuocate
analogie”, cfr. F. Rivetti Barbò, Dio amore vivente. Lineamenti di teologia
filosofica, Jaca Book, Milano 1997, soprattutto il cap. V: “I nomi-di-Dio:
sfuocate analogie”, pp. 103-110.
[3] San Tommaso d’Aquino
distingue le arti meccaniche e le arti liberali; le prime “ordinantur ad opera per corpus exercita”, le seconde “ordinantur ad opera rationis”, e le
prime sono “serviles, in quantum corpus
serviliter subditur animae, et homo secundum animam est liber”, e in esse si annoverano la
pittura e la scultura, conformemente alla cultura medievale. San Tommaso
comunque aggiunge: “Nec oportet si
liberales sunt nobiliores, quod magis eis conveniat ratio artis” e —come
ricorderemo ancora in seguito— “Ars nihil
aliud est quam recta ratio factibilium” S.
Tommaso d’ Aquino, S. Theol.,
I-II, q. 57, a. 3, ad 3um.
[4] F. Olgiati, S. Tommaso
e l’arte, in “Rivista di Filosofia Neoscolastica”, XXVI (1934) 1, pag. 97 (l’articolo in
questione risponde a una lettera di R. Bizzarri, riportata all’inizio dello
stesso). La citazione di San Tommaso è tratta da S. Theol. I-II, q. 58, a. 5, ad 2um.
[6] F. Olgiati, La
“simplex apprehensio” e l’intuizione artistica, in “Rivista di Filosofia
Neoscolastica”, XXV (1933) 4, pag. 529.
Altri elementi della bellezza, oltre la claritas,
sono l’integritas e la debita proportio o consonantia.
[9] S. Babolin, Produzione
di senso. Introduzione alla filosofia della cultura, editrice Pontificia
Università Gregoriana, Roma 1993, pag. 77.
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