Tomás H. Jerez

miércoles, 11 de enero de 2012

ARTISTI PER ANALOGIA

“Tutti gli artisti, poi, che guidati dal loro ingegno intendono glorificare Dio nella santa Chiesa, ricordino sempre che la loro attività è in certo modo una sacra imitazione di Dio Creatore e che le loro opere  sono destinate al culto cattolico, all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli”[1].
L’attività dell’artista è dunque  “in certo modo» una sacra imitazione di Dio Creatore, ovvero la creazione artistica umana è “analoga” alla Creazione divina, seppure con l’infinita distanza presente in tutte le sfuocate analogie[2] con cui gli uomini parlano di Dio.



A partire dalla creazione artistica noi possiamo capire in qualche modo la Creazione divina, così come a partire dal nostro modo di conoscere e amare possiamo dire che Dio, infinitamente, conosce e ama.
La peculiarità della creazione artistica non è mai sfuggita all’attenzione di chi ha tentato di parlare filosoficamente di Dio. Anche nel Medio Evo, quando le arti figurative ancora erano escluse dal novero, più nobile, delle arti liberali, ed erano definite arti servili[3], pure l’agire dell’artifex (artifex creatus) per analogia era usato per parlare dell’Artifex divino. Olgiati sottolinea che questo uso analogo del termine testimonia  come sia riduttivo tradurre l’artifex medievale esclusivamente  con “artigiano”, riduzione che peraltro viene sovente usata per negare la consistenza teoretica e l’attualità dell’estetica medievale, e tommasiana in particolare: “non bisogna stupirsi se per i nostri vecchi non vi fossero abissi tra l’artigiano e l’artista. Artigiano era  stato Gesù, il Maestro; ed anche a proposito di Dio, si poteva e si doveva parlare di ars nel senso generale sopradescritto: ‘Eorum omnium —insegnava S. Tommaso— quae a Deo in esse procedunt ratio propria in divino intellectu est... Ratio autem rei fiendae in mente facientis ars est; unde Philosophus dicit (Ethic., VI, c. 5) quod ars est recta ratio factibilium. Est igitur proprie ars in Deo’. Parole, che vorrei fossero meditate, quando si confonde ars con mestiere! S. Tommaso non avrebbe mai detto che Dio, propriamente parlando, esercita un mestiere!”[4].
Mi sembra importante, proprio in ordine al rapporto tra l’uomo artista e Dio creatore, riflettere qualche istante sulla definizione aristotelico-tomista di arte: “ars est recta ratio factibilium”, definizione che copre l’intero ambito dell’arte, anche le arti belle, e dunque, tanto più,  l’arte religiosa e l’arte sacra.
“Ars est recta ratio factibilium”, ovvero l’arte è la retta ragione delle cose da produrre, e entro queste “cose da produrre” sono incluse anche le opere d’arte.
L’arte, dunque, implica un “fare” (facere), diverso dall’ “agire” (agere) in quanto transitivamente rivolta verso gli oggetti esterni.
Per certi versi, le arti figurative rappresentano l’arte  per eccellenza, in quanto l’oggetto esterno (l’opera d’arte) qualifica il loro “facere” come essenzialmente produttivo, poietico. L’arte è sempre un’azione transitiva, finalizzata a qualcosa che “non” coincide con il soggetto che fa arte.
L’arte, soprattutto, implica una ratio, una recta ratio. In altri luoghi, S. Tommaso usa l’espressione «ordinatio rationis»[5], ovvero ordinamento della ragione, in ogni modo l’arte viene riconosciuta entro un dominio razionale, peculiarmente umano.
L’arte è un prodotto dello spirito, è un fare razionale, sia essa arte liberale e/o arte meccanica.
Questa razionalità consente all’artista di imprimere una forma nella materia.
A questo può essere sinteticamente ricondotta l’azione creatrice dell’artista: a un sapere informare, in certo modo, la materia. Ciò implica, a mio avviso, una seria considerazione della “pre–meditazione” del fare artistico che non è mai, o mai dovrebbe essere, un pasticciare con la materia senza progettualità, senza finalità, senza cultura.
L’arte misura la propria ricchezza nella peculiarità con cui si muove tra il particolare e l’universale, per dirla con l’Olgiati “Quando si riesce a imitare la forma (l’universale) mediante la materia (il particolare) —ed è ben questo il vero concetto della mimesi aristotelica— noi abbiamo l’arte, la cui nota essenziale consiste nella claritas, a differenza del vero la cui natura sta nell’evidenza”[6].
L’universale, vale la pena di esplicitarlo, altro  non è che il “prodotto” dell’attività intellettuale dell’uomo, il mezzo con cui l’uomo pensa la realtà.  L’universale è “astratto”, termine quest’ultimo tanto frainteso e male usato, soprattutto in ambito estetico. L’astrazione, infatti, viene sovente fraintesa con l’idealizzazione della realtà, con un’operazione di allontanamento radicale dalla concretezza, colpevole di poca aderenza alle “cose”. In realtà, l’astrazione è un modo peculiarmente umano di pensare la realtà concreta.
L’arte, in quanto attività superiore umana, non legata al solo mondo sensibile (gli animali, infatti, pur avendo una ricchissima conoscenza sensibile, non producono arte), è sempre in un certo modo “astratta”, ovvero implica sempre una astrazione. Per ricorrere ancora alle limpide esplicitazioni della filosofia tommasiana operate dall’Olgiati: “anche per S. Tommaso l’astratto, in quanto astratto, non è arte, ossia la simplex apprehensio, in quanto simplex apprehensio, non è ancora attività estetica; tuttavia l’attività estetica, non sarebbe possibile se non ci fosse l’idea da esprimere”[7]. La peculiarità dell’arte sta nel modo con cui esprime l’universale, calandolo nell’individualità dell’opera: nell’arte viene espresso “l’astratto mediante il concreto, la forma mediante la materia, l’universale mediante l’individuale, la simplex apprehensio intellettiva mediante l’immagine sensibile”[8].
In questa operazione, così ricca, in cui l’uomo, per così dire, parte da una realtà individuale (la realtà conosciuta) per poi tornare a un’altra realtà individuale da egli stesso prodotta, l’uomo agisce a immagine di Dio Creatore.
Dio crea dal niente, la creazione è un puro atto perfetto della sua perfetta conoscenza e volontà, l’uomo dunque, propriamente parlando non crea, quanto piuttosto ri–crea, in quanto l’operare artistico umano parte sempre e comunque dalle opere di Dio, dal creato. La “novità” dell’operare artistico è una novità parziale, solo Dio è un “artista globale”: la novità delle sue opere è infatti una reale innovazione ontologica.
Mi sembra interessante sottolineare la ricorrenza dell’espressione “in certo modo” nei documenti conciliari dedicati all’arte. L’uomo “in qualche modo” esprime la bellezza divina con le opere artistiche, e la sua attività artistica è “in certo modo” una sacra imitazione di Dio creatore. Mi sembra di poter esplicitare che l’attività artistica dell’uomo vive nell’analogia con l’attività di Dio Creatore, e questa analogia attraversa tutto l’operare artistico e, soprattutto, lo fonda.
L’analogia che ci consente di parlare di Dio a partire dal creato,  è il punto di vista privilegiato per una corretta considerazione dell’arte. Essa ci consente di sottolineare il ricchissimo aspetto produttivo e insieme l’opacità e il limite di tale operare.
Come il concetto universale è la ricchezza e insieme il limite del pensare umano e soprattutto ne è l’umana peculiarità —Dio non ha bisogni di concetti: pensa l’individuale, penetra ogni realtà nella sua intima essenza— così l’arte reca in sé alla massima potenza la ricchezza e il limite di un “fare razionale”.
Babolin, tenendo conto anche del punto di vista delle estetiche contemporanee, ha esplicitato tale analogia: “Per la filosofia scolastica la creazione è una produzione, radicale e totale, di qualcosa (productio rei ex nihilo sui et subjecti). Ora qualcosa di analogo avviene anche nella creazione artistica: c’è arte, propriamente, nella misura in cui un’idea informa una materia, una forma si fonda con un contenuto costituendolo unità organica. Infine, come nella creazione Dio è sempre presente alla sua creatura, restando però nascosto nel suo mistero di trascendenza, così anche l’artista è sempre presente alla sua opera; e deve farlo nascondendosi, per permettere all’opera di esprimere la propria vita e di muoversi nell’universo della storia come seme di rinnovamento vitale”[9]. Tale considerazione, peraltro, consente di ribadire come l’artista debba sfuggire dal puro soggettivismo, egli è l’artefice dell’opera e non ne è il protagonista, né tanto meno è l’opera stessa. Tentativi di fare della propria vita un’opera d’arte, si fondano propriamente sull’equivoco tra il fare e l’agire.
L’analogia tra l’artifex e l’Artifex fonda la possibilità di un’arte religiosa, sulla base della “affinità esistente tra l’arte e la creazione [...] la creazione artistica può favorire l’incontro con il Creatore, purché non sia positivamente escluso”[10].
Del resto l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. È dunque una corretta antropologia, insieme a una corretta gnoseologia, a fondare una corretta estetica, e a rendere possibile un discorso vero sull’arte.


di Rodolfo Papa





[1] Ivi, 127.


[2] Per l’espressione “sfuocate analogie”, cfr. F. Rivetti Barbò, Dio amore vivente. Lineamenti di teologia filosofica, Jaca Book, Milano 1997, soprattutto il cap. V: “I nomi-di-Dio: sfuocate analogie”, pp. 103-110.


[3] San Tommaso d’Aquino distingue le arti meccaniche e le arti liberali; le prime “ordinantur ad opera per corpus exercita”, le seconde “ordinantur ad opera rationis”, e le prime sono “serviles, in quantum corpus serviliter subditur animae, et homo secundum animam est  liber”, e in esse si annoverano la pittura e la scultura, conformemente alla cultura medievale. San Tommaso comunque aggiunge: “Nec oportet si liberales sunt nobiliores, quod magis eis conveniat ratio artis” e —come ricorderemo ancora in seguito— “Ars nihil aliud est quam recta ratio factibilium” S. Tommaso d’ Aquino, S. Theol., I-II, q. 57, a. 3, ad 3um. 


[4] F. Olgiati, S. Tommaso e l’arte, in  “Rivista di Filosofia Neoscolastica”,  XXVI (1934) 1, pag. 97 (l’articolo in questione risponde a una lettera di R. Bizzarri, riportata all’inizio dello stesso). La citazione di San Tommaso è tratta da S. Theol. I-II, q. 58, a. 5, ad 2um.


[5] S. Tommaso, I Anal., 1, a.


[6] F. Olgiati, La “simplex apprehensio” e l’intuizione artistica, in “Rivista di Filosofia Neoscolastica”,  XXV (1933) 4, pag. 529. Altri elementi della bellezza, oltre la claritas, sono l’integritas e la debita proportio o consonantia.


[7] Ivi, pag. 528.


[8] Ivi, pag. 529.


[9] S. Babolin, Produzione di senso. Introduzione alla filosofia della cultura, editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, pag. 77.


[10] Ibidem.

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