Nel
pomeriggio di giovedì 4 febbraio nell'Ambasciata Italiana presso la Santa Sede
sono state presentate le iniziative culturali di "Imago Veritatis"
per la prossima ostensione della Sindone. In particolare la mostra "Gesù.
Il volto, il corpo nell'arte" organizzata con la Reggia della Venaria
Reale - dal 1 ° aprile al 1 ° agosto - e il concorso per le scuole piemontesi
"L'uomo della Sindone". Sono intervenuti l'arcivescovo Gianfranco
Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Giuseppe Ghiberti,
presidente della Commissione Sindone della diocesi di Torino, Andrea Gianni,
presidente dell'Associazione Sant'Anselmo, Lucetta Scaraffia, dell'università
di Roma La Sapienza, Alberto Vanelli, direttore della Venaria Reale e il
curatore della mostra. Di quest'ultimo pubblichiamo l'intervento.
Nell'occasione
dell'ostensione particolare della sacra Sindone a Torino nella primavera del
2010, verrà allestita presso il Palazzo di Venaria Reale una mostra focalizzata
sull'interesse che la persona fisica di Cristo ha suscitato nell'arte
occidentale. Composta di opere di pittura e scultura dal paleocristiano al
barocco - di cui alcune tra le più importanti dai Musei Vaticani - la mostra si
pone in parallelo all'evento religioso, mettendo in luce l'ampia prospettiva
culturale di cui esso fa parte. Così i pellegrini che a Torino pregheranno
davanti al telo che, secondo la tradizione, avvolse le spoglie di Gesù conservandone
l'impronta, alla Venaria Reale potranno riscoprire la centralità del corpo nel
pensiero europeo nonché interrogarsi sul legame tra corpo umano e identità
divina implicito nei culti della Sindone, del Mandylion e della Veronica.
Pellegrini e semplici visitatori alla mostra potranno infine riflettere sul pathos che la morale giudeo-cristiana da sempre associa all'immolazione corporea a servizio di altri; la parte centrale della mostra, una "foresta" di celebri crocifissi monumentali, inviterà a meditare l'attuale e vessata questione dell'importanza di questa immagine nella storia culturale d'Europa.
Il tema formale della mostra - la corporeità di Cristo - viene cioè proposto in forma di domanda aperta intorno al rapporto tra corpo e spirito nella tradizione culturale occidentale. Oggi, in una cultura che sempre più pensa al corpo in chiave "tecnica", preoccupandosi di modificarne l'aspetto e potenziarne la performance, esercitano singolare fascino infatti immagini allusive al corpo come espressione di impegno interiore, veicolo di gesti significativi, strumento di amore spirituale: la corporeità attribuita a Cristo nel pensiero e nell'arte dei cristiani.
La volontà di organizzare una mostra con questa valenza al contempo religiosa e antropologica nasce nell'ambito dei preparativi per l'ostensione particolare della Sindone voluta dall'arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto, e concretamente dall'energico interesse del direttore del Consorzio culturale della Venaria Reale, Alberto Vanelli. L'ideazione e la curatela dell'evento sono state affidate a chi ora scrive, nel contesto dell'attività di "Imago Veritatis", il progetto culturale dell'Associazione Sant'Anselmo di Milano, di cui faccio parte insieme a Lucetta Scaraffia e Andrea Gianni. Il catalogo della mostra (Silvana editoriale) è concepito come un vero libro a più mani, includerà diciotto saggi di storici, teologi ed artisti europei e statunitensi, tra cui la stessa Scaraffia, Giovanni Maria Vian e Antonio Paolucci.
A prescindere dalle molte questioni che la Sindone solleva, la sola possibilità dell'esistenza di una reliquia che preserva impresse le forme del corpo, e leggibili i tratti del volto di Cristo è carica di significato, attestando la dimensione storica della fede cristiana e implicandone l'orizzonte mistico. Il telo, noto come la Sindone, sottolinea cioè il convincimento che Gesù sia realmente vissuto, morto e risorto; sarebbe in effetti il segno del suo passaggio alla vita nuova, il telo abbandonato al momento di risorgere.
La possibilità dell'esistenza di una simile reliquia è specialmente significativa per l'arte, perché conferma la "visibilità" e quindi la "rappresentabilità" dell'uomo che si diceva Figlio dell'invisibile Dio d'Israele. "Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico", ricordava san Giovanni Damasceno, evocando il divieto biblico ad ogni raffigurazione della Divinità. "Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini - continuava - così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio", cioè a dire dell'uomo Gesù. Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nell'anno 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano - vedeva un nesso tra il dogma teologico dell'incarnazione e l'uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.
La mostra mette in evidenza la continuità di queste idee nell'era moderna. Allestita nell'occasione di un'ostensione pubblica della Sindone, porta l'attenzione sull'uomo il cui corpo e volto sarebbero tracciati sul venerabile telo suggerendo come pittori e scultori di vari periodi l'abbiano visualizzato. Oltre a evocare l'aspetto di questo personaggio più raffigurato della storia, e a ripercorrere le tappe della sua vita, la mostra suggerisce il legame che l'arte ha visto in lui tra corpo, volto e personalità; la scelta di caratterizzare l'evento con il nome personale "Gesù" piuttosto che col titolo messianico "Cristo" nasce infatti dal forte senso di persona riscontrabile in raffigurazioni del suo corpo sofferente e volto patiens. Non è esagerato affermare che l'idea stessa di persona elaborata dall'Occidente negli ultimi due millenni sia debitrice di questa tradizione iconografica, in cui libertà e dignità umana scaturiscono dal dono del corpo e si comunicano nel pathos dello sguardo. Lo scopo della mostra, come già accennato, infatti è di favorire una riflessione storico-antropologica, utile in un periodo di vertiginose trasformazioni sociali quale il nostro.
I coefficienti corpo-volto-persona, variamente interpretate nell'arte di civiltà diverse, esprimono diverse visioni dell'uomo. Il mondo greco-romano su cui il cristianesimo s'innestò ne conosceva almeno tre: quella arcaica, quella classica e quella ellenistica. Nella prima, la rigidità del corpo e la fissità dello sguardo parlavano della ricerca umana di ordine di contro al caos dell'universo; nella seconda rilassatezza corporea insieme a interiorità nell'espressione facciale comunicavano un controllo sereno, semi-divino, della propria sorte; nella terza, che è quella culturalmente più vicina all'arte cristiana, spontaneità nelle pose e nei movimenti associata all'indagine psicologica e all'interesse per l'irrazionale sottolineavano il dramma dell'esistenza umana. Comune denominatore dell'equazione variabile antica era però un pessimismo derivante dalla concezione labile del corpo-persona al di là della morte: suggestivo in questo senso il racconto riportato da Erodoto, di due giovani dell'Argo, Cleobis e Bitone, i quali, in mancanza di buoi per il carro della madre che voleva recarsi al santuario della dea Hera, s'erano infilati il giogo, trascinando il rozzo veicolo per chilometri su strade scoscese sotto un sole cocente. Arrivata al tempio, la madre, fiera della forza morale e fisica dei suoi figli, pregò Hera di concedere loro il beneficio maggiore che le divinità possano dare a esseri umani, e così fu: quella stessa notte, coricatisi nel santuario, Cleobis e Bitone morirono (Historia, 1, 31). Ecco, la morte all'apice delle forze morali e fisiche, prima dei compromessi e del disfacimento della vecchiaia, era il dono degli déi antichi agli uomini.
Questo sottofondo fatalista colora l'esperienza del corpo nel mondo greco-romano e spiega sia l'estetismo sia l'edonismo riflessi nell'arte del periodo confinante con il diffondersi del cristianesimo. Il corpo bello dei personaggi divini e umani di Teocrito e d'Ovidio, il corpo strumento di arbitri sensuali e oggetto di desideri lussuriosi, costituisce infatti lo sfondo su cui dobbiamo leggere la reazione cristiana, come dichiara apertamente Paolo di Tarso quando condanna i suoi contemporanei pagani perché "hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un'immagine e una figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili" (Romani, 1, 23). Paolo collega a tale perverso scambio quella che egli considera l'immoralità sessuale dei pagani (Romani, 1, 26-28), e elenca i mali morali, etici e spirituali che secondo lui ne conseguono: ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia, odio omicida, litigiosità, fraudolenza, malignità, diffamazione, maldicenza, ostilità verso Dio, arroganza, superbia, presunzione, ingegnosità nel male, ribellione contro i genitori (Romani, 1, 29-30); conclude questo fosco ritratto affermando che i pagani sono "insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia" (Romani, 1, 31).
Paolo era cristiano e prima ancora era ebreo, erede di un'immagine dell'uomo non dipinta o scolpita, ma articolata nelle scritture e nelle tradizioni del suo popolo. A differenza dei miti pagani, che presentavano gli dèi con tutti i difetti degli uomini, la cultura biblica di Paolo e dei primi cristiani riteneva che l'uomo dovesse aspirare alla perfezione di Dio, e soprattutto alla sua misericordia. "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso", Gesù aveva detto infatti (Luca, 6, 36), e questa misericordia caratteristica dell'essere umano aveva una singolare componente "corporea". Già nell'Antico Testamento molte parole del Dio incorporeo lasciano intravedere l'importanza del corpo per comprendere le sue leggi: "Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole", l'Altissimo comanda a Israele, motivando questa norma divina con una ragione molto umana. Secondo il Dio della Bibbia, un creditore deve rendere il pegno al povero prima di notte "perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?" (Esodo, 22, 25-26) - un Dio incorporeo cioè sensibile al tremore della pelle del povero! Nello stesso spirito ma fuori da ogni logica legale, Gesù descrive come, nel Giudizio ultimo, il Figlio dell'uomo premierà quanti avranno avuto cura corporale del prossimo; parlando in prima persona dice: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere,ero forestiero e mi avete ospitato, nudo mi avete vestito" (Matteo, 25, 35-36).
"Ho avuto fame". Per i credenti in lui, Gesù, Figlio di Dio, è diventato quel povero a cui bisogna rendere il mantello prima di notte: l'affamato, l'assetato, l'escluso, il senza tetto, l'ignudo da coprire. "Verbo" divino - perfetta espressione cioè della misericordia del Padre - "si fece carne" (Giovanni, 1, 14), assumendo in sé tutte le sofferenze corporee e morali degli uomini. Soprattutto nella sua volontaria passione e morte divenne "l'icona dell'invisibile Dio" (Colossesi, 1, 15) - la sua stessa immagine - secondo un paradossale principio funzionale: "il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l'abito più acconcio al genere di lavoro", dice un teologo greco del iv secolo, il vescovo san Macario. "Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l'anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divise il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone" (Omelia 28; pg, 34, 710-711).
Ecco, l'immagine di Dio
contemplata nel corpo sofferente di Gesù implica questa dinamica di
purificazione e crescita. Implica anche un processo in cui il soggetto umano
scopre e comprende se stesso, come suggerisce un padre della Chiesa, Pietro
Crisologo, quando immagina Gesù crocifisso che invita i credenti a riconoscere
nel "suo" corpo sacrificato il senso morale della "loro"
vita. "Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro
cuore, il vostro sangue", dice Gesù. "E se temete ciò che è di Dio,
perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non
ricorrete al congiunto?". Commosso da quest'idea, Crisologo esclama:
"O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L'uomo è divenuto vittima e
sacerdote per se stesso. Non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a Dio ma
porta con sé e in sé ciò che sacrifica". Invitando poi a imitare Cristo,
il santo esorta: "Sii, o uomo, sacrificio e sacerdote (...), fa del
tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo come
vittima a Dio. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua
preghiera, non del tuo sangue. Viene placato dalla volontà, non dalla
morte" (Discorso 108. pl, 52, 499-500).
Sono citazioni, queste, utili per capire la presente mostra, che invita il visitatore a riscoprire la concezione di corporeità e di personalità elaborata nei secoli attraverso immagini di Gesù - l'idea del corpo come luogo di una dignità insita nell'essere umano - di una capacità "sacerdotale" di offrirsi - e del volto come specchio di libertà consapevole. Le opere in mostra infatti mettono lo spettatore nelle condizioni di quelle donne e di quegli uomini descritti nel Nuovo Testamento, per cui il corpo e volto di Gesù erano luoghi di sorprendente, anche scandalosa, scoperta: quando a esempio egli tornò dal deserto al suo paese, Nazaret, e nella sinagoga lesse ad alta voce i versetti messianici di Isaia 61 - "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione". Narrando l'evento, l'evangelista Luca nota che "gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui" quando, alle parole d'Isaia, Gesù aggiunse altre parole, inaspettate e per i presenti certamente incomprensibili: "Oggi - disse - si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi", (Luca, 4, 16-21; cfr. Isaia, 61, 1-2). Gli occhi dei presenti stavano sopra di lui, fissi sul suo corpo e sul volto, perché la sua affermazione "oggi si è adempiuta questa Scrittura" li obbligava ad associare le antiche promesse di una futura era benedetta con questo giovane uomo seduto in mezzo a loro - non con la sua mente o con gli eventuali insegnamenti, ma con lui come presenza fisica: con il suo corpo, con l'espressione della sua faccia. "Non è costui il figlio di Giuseppe?", chiedono subito, incapaci di vedere in Gesù più di quanto credevano di conoscere, così che egli commenta: "Nessun profeta è bene accetto nella sua patria" (Luca, 4, 22-24).
Un'occasione analoga, assai più drammatica, è narrata nel quarto vangelo. Due giorni dopo la sua miracolosa moltiplicazione di pochi pani e pesci per sfamare una folla oceanica, Gesù spiega ad alcuni delle stesse persone che l'avevano ricercato di nuovo che il vero pane offerto dal Padre all'umanità - il pane disceso dal cielo - era lui stesso (Giovanni, 6, 32-35). Di nuovo allora i suoi ascoltatori si chiedono: "Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come può dire: "Sono disceso dal cielo"?" (Giovanni, 6, 42). Ma egli insiste, usando linguaggio inequivocabile anche se umanamente incomprensibile: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita dell'uomo" (Giovanni, 6, 51); e ancora: "Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita(...)perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui" (Giovanni, 6, 53-55-56). L'evangelista Giovanni descrive la negativa reazione a queste parole da parte degli ascoltatori, e come "da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui" (Giovanni, 6, 66), e non si fa fatica a capirli, perché Gesù in pratica pretendeva che vedessero il suo corpo come alimento, e così pure il volto: insieme all'affermazione di essere il vero pane disceso dal cielo, dice: "Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Giovanni, 6, 40). Molte opere in mostra prendono luce da questi asserti, sia perché originalmente intese per altari, dove il corpo e volto di Gesù raffigurati dall'artista erano visti in prossimità al pane e vino dell'Eucaristia, sia perché esplicitano tale allusione, facendo vedere apertamente l'ostia di pane o il calice del vino in rapporto alla persona di Gesù; tra i termini tradizionalmente usati per l'Eucaristia i più comuni sono infatti Corpus Christi e Corpus Domini "Corpo di Cristo" e "Corpo del Signore".
di Timothy Verdon
(©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2010)
(©L'Osservatore Romano - 5 febbraio 2010)
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