In occasione della festa del Natale 2004, la Libreria Editrice Vaticana ci ha fatto dono della bella pubblicazione “Atti del Concilio Niceno secondo Ecumenico Settimo” in tre volumi. Mi congratulo vivamente con la Libreria Editrice Vaticana per l'importante pubblicazione che non solo favorisce la conoscenza storica e teologica degli atti di un Concilio ecumenico, ma concorre anche ad approfondire un aspetto del culto cristiano, quello relativo alle icone.
Mi congratulo anche con il P. Piergiorgio M. Di Domenico, o.s.m., non solo per la traduzione degli Atti dal testo greco, ma anche per la interessante introduzione che prospetta con estremo rigore e grande chiarezza le complesse tematiche concernenti la venerazione delle icone.
Non posso fare a meno, infine, di ringraziare Mons. Crispino Valenziano che, con tanto entusiasmo e tanta tenacia, ha incoraggiato la pubblicazione degli Atti del Concilio; senza di lui, oggi non potremmo giovarci di questo lavoro.
Sorprende che, fino ad ora, non sia stato possibile avere il testo degli Atti del Concilio Ecumenico VII nella loro completezza in lingua moderna. Tale Concilio, le cui decisioni furono determinanti in diversi ambiti - religioso, artistico, politico - è tuttora di grande interesse, a tredici secoli della sua convocazione, e non si tratta di un interesse esclusivamente storico; queste pagine hanno grande rilevanza per la vita della Chiesa di oggi. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, nel 1987, in occasione del dodicesimo centenario del Concilio, ha ricordato: “quanto siano ancora attuali l'importanza teologica e la portata ecumenica del VII e ultimo Concilio pienamente riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. La dottrina definita da questo Concilio, per quanto concerne la legittimità della venerazione delle icone della Chiesa, merita anch'essa un'attenzione speciale non soltanto per la ricchezza delle sue implicazioni spirituali, ma anche per le esigenze che essa impone a tutto l'ambito dell'arte sacra” (Lettera Apostolica Duodecimum sæculum, n. 1).
A proposito della rilevanza in ambito ecumenico di questo Concilio il Santo Padre afferma: “Il rilievo dato da esso all'argomento della tradizione, e più precisamente della tradizione non scritta, costituisce per noi cattolici come per i nostri fratelli ortodossi un invito a ripercorrere insieme il cammino della tradizione della Chiesa indivisa per riesaminare alla sua luce le divergenze che i secoli di separazione hanno accentuato tra noi, onde ritrovare, secondo la preghiera di Gesù al Padre, la piena comunione nell'unità visibile” (Duodecimum sæculum, n. 1).
L'attualità del Niceno II è accresciuta anche dal rinnovato interesse, in occidente, per la teologia e la spiritualità delle icone e, più in generale, per la valorizzazione del linguaggio non verbale nella liturgia. In un mondo in cui le immagini sono onnipresenti, il cristiano contempla nell'icona il volto di Cristo, vera immagine del Padre (cf. Col 1,15), e il volto dei santi, che si sono lasciati trasfigurare ad immagine e somiglianza di Gesù Cristo per opera dello Spirito. Purtroppo a volte le icone sono state fatte oggetto di commercio, come lamenta con grande rammarico il Patriarca Ecumenico Dimitrios I (Enciclica nella festa dell'Esaltazione della Santa Croce, 15. 9. 1987, n. 31-32).
Il Niceno, in sintesi, è attuale, perché trasmette l'eredità della tradizione cristiana in ambito teologico, artistico, liturgico. Parlare della venerazione delle icone è parlare della preghiera, in particolare della preghiera liturgica; è parlare, dunque, del nostro “stare dinanzi al Signore”, per essere trasformati, a nostra volta, in icone viventi.
II. La crisi iconoclasta
Il Niceno II costituisce la conclusione di un lungo processo di riflessione sul senso e il posto delle immagini nella vita della Chiesa.
Fino all’inizio del III secolo predomina nella Chiesa l’assenza delle immagini. Ciò si deve al pericolo dell’idolatria diffusa nel mondo pagano, già alla base del divieto di riprodurre immagini nella legislazione dell’Antico Testamento.
La pace della Chiesa ai tempi di Costantino ha delle conseguenze decisive. A seguito del numero sempre crescente di battezzati, aumentano le manifestazioni esteriori della pietà cristiana, si sviluppa il culto dei martiri, si accresce l’importanza dei pellegrinaggi, ovunque sorgono nuove chiese e Basiliche. L’arte cristiana cessa di essere prevalentemente iconografia funeraria, inintelligibile ai non iniziati e assume la funzione di favorire l’evangelizzazione delle folle sempre più numerose di cristiani.
Nel IV secolo si levano, per la prima volta nella storia della Chiesa, delle voci che disapprovano le immagini religiose, facendo appello all'interdizione delle immagini contenuta nell'Antico Testamento (cf. Es 20, 4; Dt 4, 15-18). Il canone 36 del Concilio di Elvira (300 ca), di cui per altro siamo scarsamente informati, stabilisce che “in chiesa non deve esserci nessuna immagine”; la lettera di Eusebio di Cesarea all'imperatrice Costanza e gli scritti di Epifanio di Salamina contengono affermazioni iconoclaste. A detta degli studiosi, questa prima forma di avversione nei confronti delle icone, è un fenomeno limitato e ristretto, forse tinto di colorazione ariana; sembra esserci un legame tra l'insistenza ariana sulla trascendenza di Dio e il divieto delle immagini. Ma queste voci iconoclaste persistono nel corso dei secoli e altre voci, allora, si levano a difendere le icone. Scrive Gregorio Magno (540-604): “Non senza ragione nei tempi antichi si è permesso di dipingere nelle chiese la vita dei santi ... Ciò che è la Scrittura per quelli che sanno leggere è l'immagine per quelli che non sanno leggere ... Le immagini sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture” (Lettere IX, 209).
L'icona si diffonde in maniera massiccia nel corso dei secoli VI e VII, favorita dalla fede popolare, dalla leggenda, dal miracolo. Non si diffonde ugualmente in tutte le aree della cristianità; i siriaci e gli armeni, ad esempio, erano molto meno inclini per il loro passato culturale all'uso delle immagini. È significativo che gli imperatori che favorirono l'iconoclastia fossero d'origine isaurica o armena. Nel 692, il Concilio in Trullo afferma: “In certe riproduzioni di immagini sacre il Precursore è raffigurato mentre indica col dito l'agnello. Questa rappresentazione fu assunta come simbolo della grazia. Essa era una figura nascosta di quel vero agnello che è Cristo, nostro Dio, rivelato a noi secondo la legge. Avendo dunque accolto queste figure e ombre come simboli della verità trasmessa dalla Chiesa, preferiamo oggi la grazia e la verità stesse come compimento di questa legge. Perciò, per esporre con l'aiuto della pittura ciò che è perfetto, decretiamo che d'ora in poi Cristo, nostro Dio, sia rappresentato nella sua forma umana e non nell'antico agnello” (can. 82). L'immagine di Cristo implicava già per i padri del Concilio trullano una confessione di fede piena nell'incarnazione.
Un fattore che contribuì all'inasprimento delle posizioni favorevoli o contrarie all'uso delle icone fu l'avanzare dell'Islam, che pretendeva di essere la più alta e più pura rivelazione di Dio e accusava la Chiesa di politeismo e di idolatria per la sua venerazione delle immagini. L'ottavo secolo fu teatro di scontri violenti. L'atto inaugurale della prima fase della lotta iconoclasta fu l'ordine, impartito dall'Imperatore Leone III il siro nel 726, di distruggere la raffigurazione di Cristo collocata sulla porta di bronzo del palazzo imperiale a Costantinopoli; l'immagine venne sostituita con una croce, sotto la quale l'imperatore fece collocare questa iscrizione: “Poiché‚ Dio non sopporta che di Cristo venga dato un ritratto privo di parola e di vita, e fatto di quella materia corruttibile che la Scrittura disprezza, Leone con il figlio, il nuovo Costantino, ha inciso sulle porte del palazzo il segno della croce, gloria dei fedeli”. A questo gesto seguì la promulgazione ufficiale di provvedimenti contro le immagini e il loro culto e violenze contro le icone e quanti le veneravano. Va ricordato che le misure iconoclaste di Leone III seguono di pochi anni l'editto del califfo Jadiz II, che ordinava la distruzione delle immagini in tutte le province cristiane da lui conquistate e gli attacchi degli ebrei al culto cristiano. L'imperatore tenta di operare un compromesso culturale che renda possibile la convivenza tra arabi, cristiani ed ebrei, cercando di smorzare gli elementi di conflitto. La ragione di stato vince sulle ragioni della fede. Papa Gregorio III, nel 731, reagì scomunicando gli avversari delle icone e del loro culto. In Oriente la difesa della venerazione delle icone fu opera soprattutto di Germano, Patriarca di Costantinopoli, di Giorgio di Cipro e di Giovanni Damasceno. Germano afferma che rigettare le icone significa rigettare l'incarnazione; nell'icona “noi disegniamo l'immagine del suo aspetto umano secondo la carne, e non quella della sua divinità incomprensibile e invisibile, perché ci sentiamo spinti a rappresentare quella che è la nostra fede per mostrare che Dio non si è unito alla nostra natura in apparenza, come un'ombra, ma che è divenuto veramente uomo” (Lettera a Giovanni di Sinade). Giovanni Damasceno combatte gli iconoclasti a diversi livelli. Confuta l'accusa di adorare nelle icone un pezzo di legno dicendo: “Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, diventato materia a causa mia” (Discorsi I, 16), e afferma che le icone sono “i libri degli illetterati” (Discorsi II, 10). Ma l'argomentazione più importante è quella teologica; il fondamento dogmatico del culto delle icone è l'Incarnazione. Il Verbo si è fatto carne, Gesù è il volto umano di Dio e noi, dunque, lo possiamo rappresentare (Discorsi I, 22). L'Antico Testamento vietava l'immagine; Dio, nell'antica economia, si rivela solo attraverso la parola. Nel Nuovo Testamento la Parola si fa immagine. Nella difesa delle icone si citerà sovente il Salmo 47, 9: “Quello che abbiamo udito, l'abbiamo visto”. Giovanni distingue accuratamente il prototipo dall'icona che lo rappresenta. L'immagine è oggetto di venerazione, non di adorazione; quest'ultima è riservata soltanto a Dio.
Nel 754, per iniziativa dell'Imperatore Costantino V, venne convocato a Ieria, sul Bosforo, un sinodo che diede carattere normativo alle decisioni degli iconoclasti. Vi parteciparono 388 Vescovi, ma nessuno proveniva dalle sedi di Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Il sinodo dichiara che gli imperatori sono uguali agli Apostoli, pieni di sapienza per opera dello Spirito Santo, incaricati di ricondurre sulla buona via i fedeli e di istruirli, e condanna la creazione di icone e il loro culto. Insiste sulla distanza tra l'icona, un oggetto materiale, e ciò che essa pretende di far vedere. Considera come unica vera immagine l'eucaristia. In tal modo, l'iconoclasmo, finora sostenuto soltanto da un editto imperiale, diventava dogma di tutta la Chiesa.
Nei due decenni successivi, i monaci, principali sostenitori delle icone, furono violentemente perseguitati; numerosi monasteri furono confiscati, i monaci costretti ad arruolarsi nell'esercito imperiale, alcuni furono sottoposti a tortura. Papa Stefano nel 769 convocò un sinodo al Laterano che anatemizzò quello di Ieria; anche i Patriarchi d'Oriente, Teodoro di Gerusalemme, Teodoro d'Antiochia e Cosma di Alessandria si rifiutarono di accettare le decisioni di Ieria.
III. Il Concilio niceno II
Con l'avvento al trono imperiale di Irene, fervente sostenitrice del culto delle immagini, la crisi iconoclasta conobbe una svolta. L'Imperatrice decise di convocare un concilio e Papa Adriano I diede la sua approvazione. Dopo un difficile inizio, dovuto ai tentativi di sabotaggio da parte della fazione iconoclasta, l'assemblea dei Vescovi, riunita a Nicea nel 787, definì, innanzitutto, i criteri in base ai quali riconoscere l'ecumenicità di un concilio. Sono criteri di grande interesse, poiché fu la sola volta in cui un concilio cercava di definire le condizioni in base alle quali un'assemblea sinodale può essere ritenuta ecumenica. Un concilio, per essere recepito come tale, deve vedere la partecipazione, o almeno l'invio di rappresentanti, del papa e dei quattro patriarcati apostolici; deve professare una dottrina coerente con quella dei precedenti concili ecumenici; deve essere recepito dai fedeli. In base a questi criteri fu negata l'ecumenicità del Sinodo di Ieria del 754 e invalidate le sue decisioni; fu affermata la legittimità del culto delle immagini e vennero inoltre approvati ventidue canoni disciplinari, tra i quali vanno ricordati quelli relativi al divieto delle interferenze dei poteri mondani sull'elezione dei vescovi, alla proibizione ai vescovi di partecipare ai traffici commerciali, all'obbligo di convocare annualmente un sinodo diocesano. Si tratta di norme che eserciteranno una forte influenza sulla legislazione ecclesiastica medievale.
La dottrina delle immagini fu definita nella sesta sessione. Così recita la definizione: “Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi padri e la tradizione della Chiesa cattolica - riconosciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa - noi definiamo con ogni rigore e cura che, come la raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerate e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sulle vesti sacre, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della purissima nostra signora, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e i giusti. Infatti, quanto più frequentemente queste immagini sono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono innalzati al ricordo e al desiderio dei modelli originari e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta certo di un'adorazione, che la nostra fede tributa solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all'immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l'offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è raffigurato” (Concilio di Nicea II, Definizione).
Ma nonostante le solenni affermazioni del Concilio di Nicea, la lotta iconoclasta non si arrestò. La stessa ecumenicità del Concilio fu negata, in Occidente, da Carlo Magno nel Sinodo di Francoforte del 794; in Oriente, l'Imperatore Leone V (813-820) inaugurò la seconda fase della lotta iconoclasta e della persecuzione degli iconoduli. Soltanto nel marzo dell'843, un sinodo convocato per iniziativa dell'Imperatrice Teodora e del Patriarca di Costantinopoli Metodio, reintrodusse definitivamente il culto delle immagini e istituì, a commemorazione di tale evento, “la festa dell'Ortodossia”, tuttora celebrata nella Chiesa d'Oriente la prima domenica di Quaresima. Tale festa celebra la vittoria dell'iconodulia e la definitiva conferma della cristologia elaborata dai primi sei concili ecumenici, dottrina che è alla base della venerazione delle icone.
IV. L'icona nella teologia e nella liturgia
Uniti nella medesima tradizione, Oriente e Occidente sono insorti insieme contro chi distruggeva il culto delle immagini, perché nel rifiuto delle icone vedevano il rifiuto del mistero stesso dell'Incarnazione. E difendendo l'immagine del Dio fatto uomo, il Concilio di Nicea ha voluto difendere anche l'immagine divina presente nell'uomo. Accanto all'icona di Cristo, vi sono le icone dei santi, di coloro che, secondo la spiritualità orientale, hanno ritrovato in se stessi l'immagine di Dio e, in sinergia con lo Spirito Santo, sono pervenuti alla somiglianza con Cristo. I santi sono i “somigliantissimi”, icone viventi, trasparenza della presenza del Regno su questa terra. “È sintomatico - scrive Pavel Evdokimov - che l'iconoclasmo, al momento della sua massima violenza, colpisce al tempo stesso le icone, la vita monastica, il culto dei santi e la divina maternità della Teotokos” (La teologia della bellezza, tr. di G. Vetralla, Roma 1971, p. 196). “Non è contro le icone che tu lotti, ma contro i santi”, scrive Giovanni Damasceno all'Imperatore Leone III (Discorsi sulle immagini II, 10). E il Niceno II dichiara: “Sia attraverso la contemplazione della Scrittura, sia attraverso la rappresentazione delle icone ... noi ci ricordiamo di tutti i prototipi e siamo introdotti presso di loro”. Contemplare un'icona non è un fatto estetico, ma un evento spirituale. L'icona rappresenta un appello alla conversione, un invito ad acconsentire a quell'opera di trasfigurazione di cui parla Paolo nella seconda lettera ai Corinti 3, 18: “Tutti noi, che a viso scoperto riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati a sua stessa immagine, di gloria in gloria, per azione dello Spirito”.
La controversia iconoclasta si concluse con una dottrina ecclesiastica ufficiale delle immagini. L'icona trovò posto nelle abitazioni dei fedeli; ancor oggi, l'immagine sacra, dinanzi alla quale arde un piccolo cero, veglia dall'alto su quelli che abitano la casa. L'uso liturgico delle immagini venne regolamentato; nessuna icona di santo poteva essere messa allo stesso rango dell'icona di Cristo e della Vergine; solo il santo cui era dedicata la chiesa aveva un posto particolare. L'antico cancello che separava il Santo dall'assemblea, dopo il Concilio niceno II si riempie di icone e si trasforma progressivamente nell'attuale iconostasi. Si introdusse l'uso, tuttora in vigore, di collocare l'icona della festa del giorno su di un pulpito ed esporla così alla venerazione dei fedeli. A partire dal VII secolo, è testimoniato il bacio alle icone; dopo la crisi iconoclasta si cominciò a baciare le icone anche durante la liturgia.
Ma anche la stessa “scrittura” delle icone - graphein in greco indica sia l'atto di scrivere che quello di dipingere - fu normata da canoni conciliari. La Chiesa veglia sull'autenticità dell'iconografia, che non è una semplice creazione di un'opera d'arte, ma un'opera spirituale, compiuta nella preghiera e nell'ascesi. L'uso “altro” della prospettiva, delle dimensioni e delle proporzioni dei corpi, degli edifici e degli oggetti, il simbolismo dei colori, il fondo dorato e il sapiente gioco di luci e di ombre fanno dell'icona una finestra che si apre sul mondo divino. Anche l'icona dei santi non è mai un ritratto; essa vuole offrire alla contemplazione dei fedeli “l'uomo nascosto nel profondo del cuore” di cui parla l'apostolo Pietro (1Pt 3, 4), l'immagine di Dio celata nel profondo dell'essere che il santo ha fatto riemergere nella sua vita.
Ma l'icona non è patrimonio esclusivo della chiesa d'Oriente. A Roma esisteva da un tempo imprecisato un'antica icona della Vergine che, secondo la leggenda, era stata dipinta da Luca e un'icona “non dipinta da mani d'uomo” di Cristo. Nel corso dell'VIII secolo, l'Italia diede riparo a icone orientali che venivano sottratte alla furia iconoclasta. Il Patriarca Germano racconta che un'icona di Maria fuggì alla volta di Roma, viaggiando sulle acque; più tardi fu chiamata “Maria la romana”. L'icona di Cristo era collocata nella cappella privata del papa nella residenza del Laterano; in occasione della festa dell'Assunzione della Vergine, il 15 agosto, veniva portata solennemente in processione a Santa Maria Maggiore, dove si trovava l'icona dipinta da Luca. Papa Adriano I (772-795) fece dono alla basilica di San Pietro di due gruppi di tre grandi icone. Proprio a Roma si è sviluppata allora una notevole decorazione musiva a mosaico che ancora oggi si può ammirare in varie Basiliche: Santa Cecilia, San Marco a Piazza Venezia e Santa Prassede.
Come in Oriente, così anche in Occidente l'uso delle icone nella liturgia viene regolamentato. Nei secoli successivi l'Occidente, pur ispirandosi alle icone orientali, elaborerà un proprio modello iconografico.
Conclusione
La lotta per la difesa delle immagini ha visto uniti Oriente e Occidente. Oggi, a distanza di secoli, l'Occidente riscopre l'icona, ne riscopre il profondo senso teologico e liturgico. La Costituzione dogmatica Lumen gentium richiama esplicitamente il Concilio niceno II e rinvia ai decreti sulle icone (n. 51); al n. 67 esorta “ad osservare scrupolosamente quanto in passato è stato sancito circa il culto delle icone di Cristo, della beata Vergine Maria e dei santi”. L'icona “vive” nella preghiera personale e liturgica. Papa Giovanni Paolo II ricorda: “L'arte per l'arte, la quale non rimanda che al suo autore, senza stabilire un rapporto con il mondo divino, non trova posto nella concezione cristiana dell'icona. Quale che sia lo stile adottato, ogni tipo di arte sacra deve esprimere la fede e la speranza della Chiesa” (Duodecimum sæculum, n. 11). E il Patriarca Dimitrios I afferma: “La presenza delle icone nelle chiese, con i presbiteri che celebrano e i fedeli che pregano, è l'attuazione di quel momento in cui sarà realizzato il mistero della comunione dei santi, adoranti il Dio trinitario; di tutti coloro che si sono resi graditi a Dio e costituiscono la Chiesa orante di oggi e dei secoli che verranno. E la venerazione delle icone, nel culto della Chiesa, ha un'importanza anche più grande, poiché avvicina i fedeli che le venerano a Dio, alla presenza ipostatica delle persone rappresentate e ai gesti sacramentali che vengono celebrati nel timore di Dio” (Enciclica, 15. 9. 1987, n. 30).
Le immagini del Cristo, della Vergine e dei Santi, collocate all’interno di un edificio ecclesiale sono diventate spesso icone spaziali, legate cioè allo spazio ecclesiale che occupano. Spesso inoltre lo spazio liturgico non è solo occupato dai volti ma anche dalla narrazione della storia della salvezza. La raffigurazione della rivelazione di Dio nel passato trova la sua realizzazione nel tempo presente e nel futuro. L’iconografia ha trovato un suo spazio che è quello della chiesa e un suo tempo che è quello del calendario delle feste liturgiche. La liturgia è diventata il quadro e il punto di riferimento ufficiale delle immagini.
Nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, abbellita di mosaici su desiderio del Santo Padre negli anni 1996-99, l’iconografia mosaicale è stata pensata in riferimento ai luoghi della celebrazione: la cattedra, l’ambone e l’altare e per sottolineare i due movimenti della storia della salvezza celebrati nella liturgia. Nelle pareti laterali sono illustrati: il movimento discendente, la discesa di Dio nella umanità e il movimento ascendente, la divinizzazione dell’uomo. La cattedra è collocata vicino alla parete d’ingresso della Cappella e sulla medesima parete è raffigurato il Cristo della parusia che viene a celebrare l’ultima Eucaristia con l’umanità. L’ambone si trova al centro della Cappella in corrispondenza al Cristo Pantocratore che domina dal soffitto. L’altare è collocato vicino alla parete di fondo su cui è rappresentato il banchetto nuziale della Gerusalemme celeste dominato dalla Santissima Trinità e con al centro la Vergine Madre.
L’iconografia deve essere aderente all’umano e trasparente del divino. È necessario riscoprire la sinergia tra celebrazione, architettura e iconografia. Al di fuori di questa sinergia non esiste arte liturgica ma solo arte sacra generica.
Occorre riprendere la tradizione dei santi padri e fare vivere le icone nel loro ambito specifico, la preghiera personale e la celebrazione liturgica. La liturgia tende a far diventare il mistero di Cristo mistero della Chiesa, a far sì che i cristiani diventino “il Figlio stesso di Dio”, secondo la bella espressione di Ireneo di Lione (Contro le eresie III, 19, 1): le icone sono ausilio prezioso in questo cammino di assimilazione a Cristo.
+ Piero Marini
Città del Vaticano, 20 gennaio 2005
http://www.vatican.va/news_services/liturgy/2005/documents/ns_lit_doc_20050120_marini_it.html
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