lunes, 27 de diciembre de 2010

LA VOCAZIONE DELL’ARTISTA

             Nella Lettera che indirizzò agli Artisti in occasione del Grande Giubileo dell’anno 2000, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha tracciato un audace paragone fra l’attività creatrice di Dio e quella degli artisti. Dopo avere citato in epigrafe la frase di Genesi 1, 31: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona», paragona il pathos con cui Dio guardò alla creazione appena uscita dalle sue mani al sentimento con cui «gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme», hanno guardato all’opera del proprio estro «avvertendo quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi […]. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore» (Giovanni Paolo II, Lettera del Papa agli artisti, 4 aprile 1999, 1).
            Sono parole molto forti, ma non per questo devono spaventare o inorgoglire chi le sente rivolte a sé; devono piuttosto costituire il fondamento di una solida spiritualità dell’artista, chiamato anch’egli ad una via di santificazione attraverso i doni particolari a lui concessi. Innanzitutto bisogna sottolineare che la distinzione fra artefice e Creatore non è solo formale, ma sostanziale. Solo Dio è Creatore, perché solo Lui dona l’esistenza a quanto prima non esisteva; chi invece utilizza qualcosa di già esistente è un artefice. Pertanto quando si afferma che un artista «crea» qualcosa, lo si dice, ovviamente, per analogia.
            In secondo luogo, il fondamento della capacità dell’uomo di essere artefice o, se vogliamo, «creatore» di qualcosa, è la condizione di essere stato creato da Dio «a sua immagine», con il compito conseguente di dominare la terra (cf Genesi 1, 27-28). Se questo si può dire di tutta l’attività umana, ciò è particolarmente vero nella creazione artistica, nella quale l’uomo si rivela in modo eccellente immagine di Dio. Ma il Santo Padre aggiunge che l’artista «realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda ‘materia’ della propria umanità» e poi anche attraverso la propria arte. Dunque, una vocazione spirituale precede e sostiene la vocazione artistica, quella di essere artefice della propria vita, facendone, in un certo senso, «un’opera d’arte, un capolavoro» (Lettera, 1-2).
            La vocazione spirituale e morale va dunque distinta dalla vocazione artistica, che consiste nell’agire secondo le esigenze e i dettami specifici dell’arte, ma le due vocazioni sono anche connesse, perché un’opera sarà necessariamente il riflesso, lo specchio dell’interiorità dell’artista. Se prendiamo come esempio san Francesco d’Assisi, egli fu anzitutto un uomo in pace con Dio; da questa condizione spirituale gli derivò la sua amicizia per gli uomini, il suo amore per le creature del Signore e la sua ispirazione poetica, che trasfuse nella più antica lirica della letteratura italiana. È noto che la versione greca della Bibbia, detta dei Settanta, per indicare che Dio considera tutto ciò che ha creato «cosa buona», utilizza la parola «kalón», cioè, propriamente, «bello» (Genesi 1, 10 ss); inoltre il «buon Pastore» (cf Giovanni 10, 11) è letteralmente il «Pastore bello, kalòs», sintesi di integrità e bellezza, così come le «buone opere», necessarie per essere discepoli di Cristo (cf Matteo 5, 14-16), sono letteralmente anche «opere belle, kalà», poiché manifestano la bontà interiore di chi le compie e producono gioia in chi ne è beneficiato. Questo non è certo privo di conseguenze per l’arte, dal momento che esiste un rapporto essenziale tra bello e buono, che già la filosofia greca aveva rilevato, nel senso che «la bellezza è, in un certo senso, l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza». Pertanto, «in un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione rivolta all’artista dal Creatore col dono del ‘talento artistico’» (Lettera, 3).
                Nel perseguire tale meta l’artista deve essere consapevole che la sua opera contribuisce ad una
comprensione più profonda della realtà, perché egli è dotato di una sensibilità superiore a quella degli altri uomini. Nello stesso tempo deve sapere anche che la sua arte non è neutra dal punto di vista della comunicazione di valori morali. Se l’arte è giustamente espressione dell’estro artistico, che agisce come una forza interiore, a cui l’artista stesso non può sottrarsi, pena il tradimento della sua ispirazione, è anche vero che essa ha chiaramente un suo ruolo sociale ed educativo, che comporta pertanto una responsabilità nei confronti dei fruitori, specie dei giovani. E non si parla qui tanto di oscenità o di blasfemìa, certamente da bandire, ma del contraddittorio nichilismo assoluto che talvolta si coglie in certe opere, plastiche o letterarie o musicali, disperate e disperanti.
            Nel libro della Genesi, che abbiamo più volte citato, si racconta che quando «la terra era ancora informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso, lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Genesi 1,2). Ancora oggi la Chiesa propone due bellissime preghiere allo Spirito Santo, la sequenza «Veni, Sancte Spiritus» e l’inno «Veni, Creator Spiritus», che ogni artista, come ogni altro cristiano, dovrebbero recitare all’inizio delle proprie attività. È spontaneo notare analogie tra «soffio - spirazione e ispirazione!», sapendo che «lo Spirito è il misterioso artista dell’universo» (Lettera, 15).
Sarebbe bello che gli artisti si cimentassero con il tema dell’Eucaristia, mistero centrale nella vita della Chiesa, perché riassume i Misteri della Salvezza. Gli artisti, se credenti, con la loro sensibilità e il loro amore potrebbero concepire opere capaci di portare alla conoscenza biblica e teologica di questo Mistero della presenza reale del Signore e quindi all’adorazione pubblica e privata, alla visita al Santissimo Sacramento, a quel dialogo silenzioso ed intimo, cuore a cuore con il Salvatore, che costituisce un fattore di ineguagliabile efficacia per la realizzazione di se stessi nella santità, per la intelligenza delle cose di lassù, per la promozione delle opere di carità, per la crescita delle vocazioni, per la pace vera, per l’unità dei cristiani, per la dilatazione missionaria del Regno di Cristo fino ai confini della terra e fino ai confini di ogni cuore.
            Riguardo ai temi da rappresentare, la tradizione della Chiesa ha elaborato un ampio repertorio iconografico di carattere narrativo e simbolico. Il primo, con intento evidentemente catechistico, attinge sia all’Antico Testamento, molti episodi del quale sono letti come profezie dell’Eucaristia (Abramo e Melchisedech, la manna dell’Esodo ecc.), sia al Nuovo Testamento, dove le profezie si realizzano (l’Ultima Cena, la crocifissione, la moltiplicazione dei pani, i discepoli di Emmaus e così via), prediligendo quanto si riferisce alla transustanziazione e all’adorazione; le fonti di tale repertorio si possono trovare nel Messale, nel Lezionario della Messa del «Corpus Domini» o della Messa votiva della Santissima Eucaristia, oppure nel Rituale per il culto eucaristico fuori della Santa Messa. I simboli eucaristici sono fin troppo noti da dover essere solo accennati; alcuni di essi appartengono addirittura alla primitiva simbologia cristiana, come il pesce, il buon pastore, la colomba, i pani con inciso il segno della croce, l’agnello, il pellicano, ecc. Ma non vanno sottovalutate neppure le potenzialità dell’arte non figurativa che, applicata alle vetrate o ad altre tecniche, mediante giochi di luce e di colore, può creare un’atmosfera particolarmente propizia alla meditazione e, auspicabilmente, alla contemplazione del Santissimo Sacramento.
            L’impegno di chi costruisce e decora la casa del Signore riceve il suo statuto dalla Sacra Scrittura. Dando avvio ai lavori per la Santa Dimora, Mosè disse agli Istraeliti «Vedete, il Signore ha chiamato per nome Bezaleel, figlio di Uri […], l’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento, rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro ingegnoso» (Esodo 35, 30-33). Certamente quello dell’artista non è un’attività comune e sopra ne abbiamo messo in evidenza la particolare vocazione. Bezaleel, Ooliab e tutti gli altri artisti e artigiani devono realizzare un progetto «secondo ciò che il Signore aveva ordinato» (cfr Esodo 36,1), cioè secondo un’immagine ben precisa concepita da Dio e comunicata a Mosé.
            Ora all’artista e all’artigiano cristiano non si chiede di eseguire oggetti predefiniti rinunciando alla propria creatività, ma si richiede di concepire la propria opera come servizio a qualcosa di più grande della semplice espressione di sé stessi, quale il culto a Dio, che prevede anche regole, appunto rituali e questo lo dico anche per l’arte più metafisica e “angelica” ovvero la musica e il canto. Sentirsi inseriti in una tradizione non certo museificata ma palpitante, che vive da millenni non deve essere vissuto come una mortificazione della creatività, né come un rifugio sicuro a cui attingere per mancanza di ispirazione; la tradizione offre linee guida alle quali essere fedeli e nel cui solco procedere arricchendo, e non già depauperando, un patrimonio di fede incommensurabile, turgido di implicanze evangelizzatrici. Si tratta appunto di un servizio reso «alla» e «nella» Chiesa, nell’ascolto alla propria ispirazione interiore.

+ Mauro Piacenza,
già Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, e della Pontificia
Commissione di Archeologia Sacra.

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