sábado, 15 de enero de 2011

IL TEMA DELLA VOCAZIONE NELL'ARTE: MONACI, FRATI ED EREMITI

Il nuovo modo di vedere e sentire sviluppatosi nella Chiesa d'epoca patristica - lo stile che potremmo chiamare mistagogico - corrisponde a una vocazione allora altrettanto nuova, quella eremitica o monastica. Il caso esemplare è la vocazione di sant'Antonio abate, avvenuta mentre ascoltava la proclamazione del vangelo alla messa.
 
L'evento, narrato dal biografo di Antonio, sant'Atanasio, viene descritto visivamente 1150 anni più tardi in una piccola tavola oggi a Berlino, opera dell'artista senese noto come il maestro dell'Osservanza, dove vediamo il giovane in piedi che ascolta mentre il celebrante legge il testo sacro. Atanasio insiste sulla situazione esistenziale del santo:  i suoi genitori erano morti da meno di sei mesi e Antonio si domandava che fare con la propria vita, "riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore dopo aver abbandonato ogni cosa". Ragazzo religioso, aveva la consuetudine di recarsi alla messa - dice Atanasio - e "meditando queste cose entrò in chiesa proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco:  "Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi, e avrai un tesoro nei cieli"" (Matteo, 19, 21). Allora Antonio, come se il racconto della vita dei santi fosse stato presentato dalla provvidenza e quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato... e si dedicò nei pressi della sua casa alla vita ascetica, e cominciò a condurre con fortezza una vita aspra, senza nulla concedere a se stesso" (Vita Antonii, Patrologia Graeca, 26, 842-846). Ecco l'ascolto acutizzato dalla fede, che fa penetrare la Parola del Signore fino al midollo, cambiando la vita di chi crede; per quanti sacerdoti e religiosi non è successo esattamente come per sant'Antonio nel dipinto, durante la messa, ascoltando e guardando un sacerdote che celebra, con la croce e il calice in piena vista!

 
Nello stesso spirito della Vita Antonii di sant'Atanasio sarà la Vita Benedicti, l'ideale biografia di san Benedetto da Norcia stilata da Papa san Gregorio Magno ai primi del VII secolo. Gregorio Magno narra di un giovane di buona famiglia che, inviato a studiare a Roma, rimane scandalizzato davanti ai vizi dei coetanei. Abbandona la capitale e si rifugia nel "deserto" di Subiaco, vivendo in una caverna vicino al monastero di certo abate Deodato. Viene aiutato da un monaco di nome Romano, che mette da parte una porzione della propria razione giornaliera di pane, calandola giù all'improvvisato eremita su una fune. È questa una delle scene raffigurate dal Sodoma nel noto ciclo d'affreschi dell'Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, nel senese, dove sia l'abito prestato al giovane Benedetto, sia quello del monaco Romano, sono quelli bianchi degli olivetani.
 
Ma ecco un altro aspetto di molte vocazioni:  l'improvvisazione spirituale iniziale, l'aiuto di una figura già avviata, "complice" nel progetto segreto e a volte osteggiato del giovane. È poi significativo che, nel racconto di Papa Gregorio, nativo dell'urbe, il nome del vecchio monaco che aiuta Benedetto sia Romano:  il sostegno che la Chiesa offre ai giovani infatti è quello della propria tradizione secolare, in cui ogni impulso di risposta a Dio può misurarsi con quanto è stato compiuto dai santi che ci hanno preceduti.
A queste fonti d'epoca patristica la tradizione agiografica del medioevo attingerà liberamente per descrivere il personaggio più affascinante dei tempi "moderni", Francesco d'Assisi. Nella Vita seconda del santo, stilata da fra Tommaso da Celano tra il 1246-47, un legame preciso tra l'era paleocristiana e quella di Francesco viene suggerito nell'episodio del dono del mantello a un cavaliere povero, tra le prime scene della Vita Francisci illustrate nel ciclo d'affreschi della Basilica Superiore d'Assisi, tradizionalmente attribuito a Giotto.
 
Per Francesco come per nessuno prima, le fonti coeve insistono sulla graduale presa di coscienza della vocazione religiosa e sulla spontaneità della risposta. San Bonaventura, nella Legenda Maior scritta tra il 1260-63, narra, senza commentarlo, un episodio premonitore che probabilmente figurava tra i ricordi del santo stesso, che deve aver raccontato ai compagni le tappe per cui giunse alla convinzione di essere chiamato da Dio:  "Un uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione divina, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose".

Per le vie della città; che imbarazzo per un giovane, ma che stimolo anche a riflettere! Noi, oggi, non siamo forse troppo discreti, evitando l'"invadenza" di attribuire ai giovani la esigente dignità della loro condizione cristiana? Chi mai diventerà religioso se nessuno lo prende sul serio come credente? Nelle vie delle nostre città, non dobbiamo dire ai ragazzi:  "Sarete onorati dai credenti, perché farete cose grandi in Cristo"?
Poi il sogno cavalleresco decifrato cristianamente - l'ambizione mondana come forma imperfetta dell'anelito a Dio - la sensibilità alle condizioni rovinose in cui, nel Duecento come oggi, giaceva la Chiesa; l'ascolto profondo in cui un giovane sente Cristo che gli dice di "restaurare" la Chiesa, il Signore crocifisso, una voce magari antica - com'era per Francesco "antica" la croce di San Damiano, dipinta nel secolo precedente - ma sempre forte, bella, il Cristo dei santi d'altri tempi. Non dobbiamo, infatti, aver paura dell'amore di molti giovani oggi per la nostra tradizione ecclesiale, per le vesti, per il latino. In un mondo che va alla deriva cercano un porto sicuro, e in un'epoca svincolata dalla storia amano quelle vie tracciate dal passato che portano al futuro.
 
L'ostilità del padre di Francesco e la sua rabbia per il rifiuto da parte del giovane dei valori materialistici; il ragazzo che si spoglia davanti a testimoni e l'accoglienza da parte della Chiesa, che riconosce in Francesco sia la chiamata autentica che la risposta generosa:  tutto questo, narrato in parole e in immagini già prima del Trecento, diventerà il modello classico per innumerevoli racconti di vocazione e risposta nei secoli successivi, basti pensare a quello relativo alla conversione di sant'Ignazio di Loyola.
Ma la vocazione non finisce con la nostra accettazione dell'invito divino, come non può finire mai la nostra risposta. Francesco, vicino alla fine dei suoi giorni, si ritirò su monte La Verna a pregare e, aprendo la Scrittura a caso sempre alla Passione del Salvatore, comprese che nella sua morte doveva essere configurato al Cristo crocifisso.
Il bellissimo dipinto di Giovanni Bellini alla Collezione Frick di New York ce lo fa vedere:  un uomo provato in mezzo al cosmo che apre le braccia al mondo e alla vita, alla natura e alla sofferenza, all'amore e a Cristo, figura di ogni chiamato cristiano, di ogni uomo e donna che risponde al crocifisso Verbo di Dio.

Vi è però un'altra immagine della vocazione confermata e della risposta accettata, con cui vorrei concludere. È la figura di Francesco inclusa nella parte inferiore di una grande croce dipinta nella Chiesa dei Francescani di Arezzo, opera forse del maestro locale Margarito, databile intorno al 1260. L'artista fa vedere san Francesco nell'atto di baciare il piede insanguinato del Salvatore, enfatizzando - anche se con qualche difficoltà - una risposta fisica oltre che emotiva alla sofferenza di Cristo:  il corpo del Poverello si piega verso il piede di Gesù con un movimento complementare alla torsione del grande corpo che lo sovrasta, come se Francesco sperimentasse nel proprio fisico l'atroce dolore della crocifissione. L'artista in effetti fa vedere il santo perfettamente "conformato" a Cristo, e nella mano destra di Francesco, che accarezza teneramente il piede di Gesù, vediamo il sigillo di questa conformazione cristica, la ferita delle stimmate.

L'artista insiste sulle stimmate, aprendo il saio del santo per evidenziare la ferita nel costato di Francesco. Poi - cosa bellissima - il pittore fa vedere il sangue che scende dal piede sinistro di Cristo, fino alla roccia su cui Francesco poggia il suo piede sinistro. Ma il sangue non passa sul piede di Francesco:  arriva al piede e riappare sotto di esso, ma non lo bagna perché il sangue di Cristo passa attraverso il piede di Francesco, attraverso la ferita dell'amore, il varco aperto dalla compassione. È una sorta di trasfusione:  il sangue del Signore nel corpo del discepolo, così che anche Francesco potrà dire "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Galati, 2, 20), e ciò che nella Vulgata è chiamata "l'umanità di Dio" entra fisicamente nell'uomo.

Ecco il senso ultimo della vocazione divina e della nostra risposta:  in Cristo condividere un'unica vita, quella vera, quella del Dio Amore.

di Timothy Verdon
©L'Osservatore Romano - 15-16 marzo 2010

0 comentarios:

Publicar un comentario