viernes, 25 de noviembre de 2011

IL «NON VERBALE» NELLA LITURGIA


            Quello che i Vescovi hanno detto alla Chiesa italiana, raccomandando una liturgia «seria, semplice e bella», è riassumibile in due parole: la solennità della semplicità. Proseguendo nelle nostre chiacchierate sul celebrare, vogliamo dare uno sguardo a ciò che fa da sfondo - per così dire - e da sostegno alle parole e ai gesti, che delle celebrazioni liturgiche costituiscono il fondamento: il “verbale” non può fare ameno del “non verbale”, in una solenne semplicità o, se si preferisce, in una solennità semplice. Tanto ci sarebbe da dire sul luogo, sull’arredo ed anche sull’abito nella liturgia: ben altro e ben meglio c’è da esporre su questi ‘segni’ e su questi temi; qui ci limitiamo al «qualcosa» su un insieme di elementi che, ordinati e coordinati con arte (anche questo fa parte dell’arte del celebrare) siano in grado di ‘dire’ e di ‘veicolare’ il Mistero celebrato.
     Un luogo per “comunicare”

1  - Il primo luogo della celebrazione liturgica è l’altare: la tavola della cena del Signore, dove è reso presente sacramentalmente il suo sacrificio. Anche il suo simbolismo cristologico     (icona di Cristo sacerdote, vittima, pastore) ne domanda la collocazione e la cura che dicano al meglio la sua centralità, tale da richiamare subito l’attenzione dell’assemblea, lo sguardo di chi entra in chiesa oltre che il cuore dei partecipanti all’azione sacra. L’altare deve essere connotato dalla luminosità (anche al di fuori delle celebrazioni) e dalla essenzialità (dal suo ordine). Attorno, e sopra, non devono essere collocati oggetti che in qualche modo lo ‘nascondino’ o lo rendano un ‘porta-oggetti’. Il celebrante sta all’altare solamente dalla presentazione dei doni alla comunione. Solo ciò che serve all’Eucaristia vi sia deposto dal momento in cui vengono portati il pane e il vino. I candelabri, se lo spazio lo permette, è meglio che siano non sopra ma accanto all’altare.
2  -  Il celebrante presiede l’assemblea dalla sede, eccetto quando proclama il vangelo (o, nel rito ambrosiano, quando annuncia dall’altare la risurrezione nella Veglia pasquale e nella Messa vigiliare) oppure quando all’ambone tiene l’omelia e durante la liturgia eucaristica. Occorre che la sede sia ben visibile e che permetta al presidente di porsi agevolmente in relazione con i fedeli attraverso i gesti e lo sguardo. Se la custodia dell’Eucaristia è al centro del presbiterio, come in  molte chiese di vecchia costruzione, la sede non costringa il celebrante a volgere le spalle al tabernacolo, a meno che questo sia in posizione elevata. Il leggio con il microfono richiede scelte sobrie e funzionali; non di rado la sede è ingombrata da leggii sproporzionati (troppo grandi o esigui) e da microfoni mal collocati.
3  - Le scelte e la premura nel costruire, nel posizionare e nell’‘allestire’ l’ambone dicono l’importanza della Parola di Dio. Questo luogo liturgico già di per se stesso deve attrarre l’attenzione e invogliare l’ascolto dell’assemblea. Vi sia la comodità di accedervi - anche processionalmente - e di collocarvi il Lezionario; potrà essere corredato da una breve frase incisiva (fissa o mutevole) che ‘chiami’ alla Parola, e ricoperto da un velo con il colore del tempo liturgico. Essendo posto normalmente  l’ambone abbastanza vicino all’altare, non conviene mirare alla solennità monumentale propria di celebri pulpiti di altrettanto celebri cattedrali o basiliche: esso non deve fare da contro-altare al luogo principale della celebrazione (appunto, l’altare); si faccia opportunamente uso invece, almeno in particolari feste e ricorrenze, dei pulpiti esistenti nelle chiese ‘tradizionali’. Oltre ad annunciare la Parola di Dio, all’ambone si tiene l’omelia, si propone la preghiera universale e si canta il solenne “Exultet” all’inizio della Vegli pasquale; dall’ambone null’altro, a meno di ‘annunci’ straordinari, o di preghiere e riflessioni al di fuori della celebrazione eucaristica.
4  - Abbiamo già detto della importanza e della necessità della guida del canto (o della voce-guida). Per chi anima il canto dell’assemblea potrà essere utile un leggio, sul presbiterio stesso (magari dalla parte opposta dell’ambone) o comunque in una posizione visibile dall’assemblea. Il leggio non è indispensabile: si può ‘dirigere’ con una mano mentre l’altra tiene eventualmente un libretto, un foglio o uno spartito.      
      Altare, sede, ambone, luogo dell’animazione diano comodo spazio al comunicarsi di Dio e al comunicare con Dio, in maniera bella ed eloquente: una scala di Giacobbe per il discendere, per il salire, per essere e per vivere «nell’unità dello Spirito santo».            
      
     Un arredo per “partecipare”
      
       ‘Arredare’ una chiesa non è soltanto impegno rivolto al che cosa collocare, ma soprattutto al perché e al come disporre oggetti, scelti e distribuiti con un criterio che non prescinda dalla celebrazione della liturgia in specie e dalla preghiera in genere. Dipinti, statue, fiori, ecc. sono - e nell’intenzione devono essere - qualcosa di più che ‘ornamenti’. Se fossero unicamente tali, rischiano perfino di opprimere il luogo delle celebrazioni liturgiche e di costituire soltanto una ‘attrattiva’ e una ‘dis-trazione’. Di esempi negativi (benché, magari, positivi per l’arte in se stessa) ne abbiamo in tante chiese grandi e piccole. L’arte della celebrazione, anche qui e di riflesso, ha le sue rigorose esigenze per il degno servizio di Dio e della sua «gente santa».
1 - Le icone. Usiamo questo termine in senso improprio o allargato, intendendo riferirci generalmente ai dipinti e alle sculture che popolano dovunque le chiese. Non sono rare le volte che, appena varcata la soglia di una chiesa, si ha l’impressione di una ‘sovrappopolazione’ di  statue, di quadri (con l’aggiunta di ‘oggetti’ vari), anche mal messi e mal distribuiti, con relativi porta-candele sempre più artificiali. Occorre un limite (una ‘semplicità’) che favorisca ordinatamente la preghiera individuale e la devozione popolare, ma che non ostacoli o depauperi la preghiera liturgica, nel suo svolgimento e nella partecipazione dei fedeli. Che dire, poi, della presenza di più statue e dipinti della Madonna o di Santi variamente disposti qua e là? In una chiesa parrocchiale mi è parsa felice la soluzione di dedicare una cappella con un’unica immagine di Maria e un’altra dedicata ad alcuni Santi.
2  - Benché in una chiesa l’assenza di fiori non debba apparire cosa del tutto sconveniente (ricordo invece dei poveri ramoscelli secchi presso l’altare, a richiamare simbolicamente il tempo quaresimale!), la loro presenza fa parte di una bellezza offerta e gratificante. Il primo significato è una specie di rappresentanza di tutta la creazione che viene associata alla lode di Dio: squisito linguaggio non verbale. Purché e fiori e piante e vasi non intralcino l’accesso all’altare, all’ambone, alla sede (o peggio, non li nascondano), e non ingombrino i movimenti e la visuale dei fedeli. La giusta misura e la moderazione - il semplice buon gusto - si oppongono a ‘giardini multicolori’, a ‘viali alberati’, talvolta a ‘mini-foreste’ in cui immergere presbiterio e navata (specialmente in occasione delle celebrazioni nuziali). L’omaggio deve essere rivolto anzitutto a Dio, poi all’intero suo popolo, e non solo a due sposi o a un gruppo di persone autocelebrantisi. Qualcuno ha scritto: «Troppi fiori uccidono i fiori!», poiché ne fanno scadere la funzione di abbellimento e infastidiscono l’assemblea. C’è un’“arte floreale” che deve coniugarsi con l’“arte celebrativa”: fa bene tenerne conto e affidarsi magari a qualche esperto. I fioristi potrebbero non solo offrire la loro merce, ma indicare anche una certa distribuzione stagionale di fiori e di verde - per quanto possibile - caratterizzando i diversi periodi liturgici dell’anno. Alla bellezza dei colori si aggiungerebbe (perché no?) il profumo proprio del tempo e del tempio; l’uso dell’incenso può insegnare qualcosa.
3  - A proposito di scritte, di pannelli e di cartelloni. L’“Ordinamento generale del Messale” non ne fa cenno, ma si è constatato e si vede quanto, dal Concilio Vaticano II, si sia diffusa l’usanza di utilizzare ‘sussidi’ vari (cartacei, ed ora sempre più mediatici - fino ad una specie di karaoke religioso!), per evidenziare passi biblici, tempi liturgici, temi catechetici, impegni pastorali, circostanze particolari. Non sempre inopportunamente, a dire il vero, ed anzi con proposte apprezzabili. È necessario, però, che questi oggetti abbiano una buona qualità artistica e siano discreti nella loro funzione propositiva. È sconsigliabile che vengano posti sul presbiterio; di preferenza siano collocati o su colonne (su pareti laterali) o all’ingresso della chiesa, evitando un sovraccarico già menzionato. Affinché si possa cogliere meglio il senso dell’altare e dell’ambone, non è opportuno che essi siano trasformati in supporti di scritte, di decorazioni e di quantaltro. Questo vale anche nei confronti dei più piccoli, dei più giovani, e di quanto essi, guidati da genitori e catechisti, sanno produrre anche di propria iniziativa. Ben collocati in luogo adatto questi ‘segni’ dicano un percorso e un fine: la meta è Lui e l’incontro è con Lui, il Signore, che viene ed è accolto nelle celebrazioni liturgiche.          

     Un abito per “presentarsi”
      
       Il valore e l’esigenza del segno o del simbolo si estende anche al vestito: si pensi, per esempio, all’abito ‘festivo’ dei fedeli che partecipano alla Messa domenicale (il Giorno del Signore non è la ‘festa’ del e col Risorto?); o all’abito ‘non feriale’ dei familiari e degli amici ad una celebrazione funebre (indice di rispetto reciproco e di fede nella ‘festa al di là’). Ma la liturgia chiede un abito simbolico particolare a chi è chiamato a presiedere la celebrazione e a coloro che la presidenza condividono in qualche modo con i propri ministeri liturgici. Anche davanti a Dio, come davanti agli uomini, specialmente quando sono convocati da Dio, un abito per “presentarsi” e un abito “presentabile” è di buona regola e di relazione corretta.
       Possiamo parlare di un “abito di funzione”, in quanto esso significa che colui che lo indossa è ‘investito’ di un compito speciale e che non agisce come persona privata - pensiamo al medico in ospedale, al magistrato in tribunale - ma in nome di un’autorità che lo delega affidandogli un servizio: nelle azioni liturgiche, Dio stesso e la Chiesa. Ma c’è un’altra ragione che giustifica e reclama degli abiti particolari nella liturgia: varcare la soglia della chiesa, entrare in una celebrazione, significa “distaccarsi” dalle cose e dalle azioni ‘ordinarie’ per avvicinare la ‘straordinarietà’ dei misteri di Dio. La “separazione” è un requisito liturgico, una specie di “segregazione” che in alcuni è operata da Dio stesso con l’ordine sacro (S. Paolo si presenta come «segregato per il vangelo di Dio» - Rm 1, 1). Un abito proprio indica questa separazione-segregazione, pur non ignorando (anzi, rafforzando) la comunione con tutti. Dopo il Concilio Vaticano II  si è fatto correre il detto: «Non è l’abito che fa il monaco» (perché certe distinzioni nel vestito fra clero e laici?). Ma si potrebbe dire alla pari: «L’abito fa il monaco» (l’aiuta ad esserlo); come «La liturgia fa l’abito del celebrante»: lo richiede, e lo aiuta a comportarsi da ‘celebrante’. Certamente: un abito che non scada né in una solennità esuberante (vada il termine ‘barocca’), né in una semplificazione (al limite del ridicolo), e neppure in una sciatta trascuratezza (nel portarlo). Il buon impiego dell’abito liturgico è segno di fede nel Sacro - nel Dio tre volte Santo - e di arte celebrativa, senza ritualismi vecchi o nuovi. Per finire, accenniamo al senso e alla semplicità del camice (in latino “alba” = bianco), tradizionalmente segno di risurrezione e di festa: richiamo del Battesimo, il sacramento della più radicale ‘separazione’ e della ‘comunione’ più profonda con Cristo e con i fratelli.

       “Qualcosa sul celebrare”: dicendo soltanto ‘qualcosa’, molte altre ‘cose’ restano nell’ombra, poiché la liturgia è un «celestiale appuntamento» (M. Luzi), mai compreso in tutta la sua luminosità, mai preparato abbastanza e mai vissuto in pienezza. Ritornando magari con altre parole su quanto abbiamo detto fin qui, vorremmo, di ‘cose’, portarne alla luce delle altre. È comunque consolante, oltre che invogliante, guardare al rito liturgico - nell’insieme delle sue varie componenti: oggetti, parole, canti, gesti, movimenti - come a quella “scala”, una scala dai molti gradini, attraverso cui Dio ‘scende’ e l’uomo ‘sale’. Facciamo, allora, un po’ di elogio della ritualità, affidandone l’incarico a voci del presente e del passato. «La ritualità è una regola del gioco della vita che permette di evitare tre difetti: la familiarità sotto la forma della sfacciataggine o della trascuratezza, poiché è un manuale di savoir-faire; l’imprevisto che inatteso sorprende, perché, se “governare è prevedere”, la ritualità è l’arte del prevedere, dunque di governare; l’arbitrario, poiché quando tutto è previsto non si corre il rischio del soggettivo e si evita il capriccio. La ritualità testimonia bene della qualità di una celebrazione» (P. Miquel). Assai ‘ante tempus’, a questo monaco e liturgista fa eco, con vivida concretezza, un autore cinese del secolo III a.C.: «I riti servono ad accorciare ciò che è troppo lungo e ad allungare ciò che è troppo breve, a ridurre ciò che è troppo abbondante e ad aumentare ciò che è troppo scarso, a esprimere la bellezza dell’amore e del rispetto e a coltivare l’eleganza di una condotta diritta. Perciò gli ornamenti superbi e la ruvida tela di sacco, la musica e le lacrime, il giubilo e la pena, pur formando coppie di contrari, sono ugualmente usati nei riti e messi alternativamente in gioco».

Don Giancarlo Boretti    

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