miércoles, 23 de noviembre de 2011

CELEBRARE È PREGARE?

          
             Iniziamo con una domanda provocatoria, il cui senso può emergere dalle prime battute. Va detto, anzitutto, che nemica del “celebrare con arte” è certamente la improvvisazione: per intenderci, l’arrivare in sacrestia e chiedersi (preti, ministranti e animatori): «Che cosa c’è da fare?».




Meno questo avviene poiché «Ormai tutto è (quasi) pronto», e meglio si svolgerà l’intera celebrazione, in un clima raccolto di preghiera. Bisogna che, il più possibile e a tempo, preceda la concertazione del gruppo liturgico, alla guida di un responsabile chiamato alla regia liturgica. Si eviteranno di molto quegli imprevisti che possono disturbare tanto il succedersi regolare dei diversi momenti rituali quanto la partecipazione stessa nel raccoglimento dell’intera assemblea. Un piccolissimo esempio? Il sacerdote è ai piedi dell’altare, la lampada è pronta per accendere le candele nel rito del lucernario, ma … lo ‘stoppino’ è stato dimenticato chissà dove! L’arte del celebrare è pure l’arte dei particolari, affidati specialmente agli animatori, cui, prima dopo e durante le celebrazioni, sono richiesti dei ruoli anche gravosi che possono suscitare comprensibili lamentele.  



     Scrupolo e malinteso        

     Ci sono fedeli che, svolgendo compiti di animazione liturgica anche impegnativi (per esempio, organisti e direttori di coro) sono rincresciuti circa la loro partecipazione alla Messa o alla liturgia delle Ore: «Mi spiace di non poter pregare come vorrei!». C’è qualcosa di vero nella loro lamentela, al di là dell’accoglienza volonterosa del loro servizio? Pare di sì, non senza qualche osservazione. Il “pregare” non è soltanto il proprio “parlare privato” a Dio nel mezzo di una assemblea liturgica, che in effetti non concede molti spazi per la preghiera individuale liberamente e interiormente formulata. Comunque, ce ne sono. Ce ne devono essere, e spesso - benché previsti nel corso della celebrazione - non vengono presi in giusta  considerazione, donando ad essi un tempo moderatamente ampio (in preparazione all’atto penitenziale e dopo l’invito del sacerdote: «Preghiamo»; anche prima di una lettura, ma specialmente dopo il vangelo o l’omelia; durante lo stesso rito offertoriale, accompagnato magari dal suono dello strumento musicale; al termine della distribuzione dell’Eucaristia). Ma è bene ricordare che nella liturgia ‘pregare’ è anche ascoltare o proclamare una lettura, ascoltare o fare un’omelia, interiorizzare le intenzioni della preghiera universale (aggiungendone mentalmente delle proprie), partecipare ad una processione d’ingresso sia pure soltanto spiritualmente, accompagnare i canti e interludiare con l’organo. Quale preghiera migliore della “preghiera della Chiesa” fatta propria, a cui ciascuno partecipa anche nel compimento di uno specifico ruolo liturgico?

     Silenzio e raccoglimento

     Va da sé che la preghiera liturgica è composta da molti e differenti “atti di preghiera” che si succedono in una grande azione: i momenti di silenzio, previsti e raccomandati, sono come delle ‘iniezioni’ di raccoglimento: ed è proprio il raccoglimento che deve estendersi e penetrare ogni atto celebrativo. Capita di avvertire giudizi di questo tipo: «Ho partecipato ad una celebrazione ‘distratta’»; ‘distratta’ da chi e da che cosa? Oppure, viceversa: «In quella celebrazione c’era un clima di silenzio»; un ‘clima di silenzio’ perché e derivante da chi o da che cosa? C’è un raccoglimento interiore non indotto dal silenzio esteriore, quando l’insieme dell’azione liturgica è condotto da una solennità semplice e ordinata, dove ciascuno agisce e tutto avviene al momento giusto e al posto giusto. Allora accade - potremmo dire - il ‘silenzio interiore’ (anche durante un inno o un’acclamazione), per cui qualcuno dice: «Il raccoglimento, talvolta mi sembra di toccarlo!». Che cosa può e deve favorire il raccoglimento, il “silenzio interiore”? Per esempio:

-  il rispetto dei già segnalati tempi di silenzio. A tutti è nota la fatica di dedicare anche solo una manciata di secondi al silenzio ‘fisico’, come ‘sospensione’ momentanea dell’azione liturgica per la preghiera individuale. Sarà utile, magari, un piccolo suggerimento da parte del celebrante che inviti a soffermarsi, nel silenzio, su un pensiero o a esprimere una preghiera particolare a conclusione dell’omelia; oppure una sobria monizione per motivare il ringraziamento personale dopo la distribuzione dell’Eucaristia.           

-  La stessa chiarezza, calma e tranquillità nella proclamazione delle letture e delle parti ecologiche (orazioni, prefazi, preghiera eucaristica) crea una specie di distensione psicologica che favorisce il loro accoglimento e la loro penetrazione nei singoli fedeli. La densità, la ricchezza dei contenuti dei testi liturgici è tale che rischia la deriva di un ascolto superficiale, quasi un “passaggio sopra la testa”, se chi legge quei testi li proferisce senza precisione e senza pacatezza.

- Anche l’accompagnamento dei canti e gli interludi strumentali giovano al raccoglimento, se sono rispettosi delle parole e del loro genere, se l’organista sa avviare bene l’esecuzione o “improvvisare” con gusto su temi melodici cantati o da cantare, collegandosi (inserendosi e arrestandosi) tempestivamente nello svolgimento dell’azione liturgica. Al riguardo, i monasteri continuano ad offrire esempi preclari di ‘garbatezza’ musicale strumentale nel sostegno della preghiera corale.

-  I movimenti stessi dei ministri, degli inservienti, degli animatori nell’area principale della celebrazione, sia pure indirettamente devono essere rispettosi e favorire il silenzio interiore dell’intera assemblea. Se questi movimenti sono eccessivi (o inutili), se precipitosi (o goffi), non disturbano unicamente gli occhi. Sovvenga S. Ambrogio, il quale allontanò dal servizio pastorale qualche presbitero, ritenuto non idoneo per il suo modo - non “garbato” - di camminare e di stare davanti al vescovo, e al buon Dio!

- Infine, favorevoli al celebrare “raccolto” sono il decoro generale e la buona sistemazione del luogo. In questo non deve mancare l’ordine dei sussidi (libro dei canti, ‘foglietti’ della Messa), posti sulle panche e sulle sedie o direttamente distribuiti ai fedeli, ad opera del servizio-accoglienza.



     Tempo e tempo

     C’è tempo per ogni cosa, e ad ogni cosa - ad ogni attività - bisogna lasciare il proprio tempo: è la sapienza biblica ad insegnarcelo. Il ‘proprio tempo’ si conceda anche alla liturgia e alle sue celebrazioni. Gestire il tempo liturgico (un anno intero, come un tempo “forte” o un singolo momento rituale) è cosa buona e giusta, ma le piccole osservazioni fatte fin qui stanno a dire che tale ‘gestione’ richiede altrettanto piccole attenzioni, che nel loro insieme conducono all’ars celebrandi, cui arrivare passo per passo. A ben vedere, pur riconoscendo i molti progressi nel cammino della riforma liturgica, qualche liturgista non ha tutti i torti quando asserisce che sono stati rinnovati i riti, ma la maniera di comprendere e di vivere la liturgia (almeno per parecchi ministri e fedeli) è rimasta a quella preconciliare. Può andare, per la liturgia, un detto della tradizione rabbinica: «Per Dio è stato più facile far uscire gli ebrei dall’Egitto che l’Egitto dagli ebrei». Gestire bene il tempo liturgico non è la cosa più facile e immediata.. Chi non riconosce che la fretta è un aspetto negativo della nostra società e del vivere giornaliero? Siamo nell’epoca degli ‘accorciamenti temporali’, dell’‘alta velocità’, dell’‘orologio alla mano’. Celebrare la liturgia, oggi - pregare, oggi - non sfugge alla deriva della fretta e del ‘tempo misurato’. A maggiorare il rischio ci si mettono pure le ‘ragioni pastorali’: sempre meno preti per sempre tante (troppe?) Messe! Bisogna correre da una chiesa o da una comunità all’altra… Gestire il tempo nella liturgia significa occupare il tempo, tutto il tempo necessario, affinché la Parola e l’Azione di Dio facciano presa nell’uomo e, a loro volta, le parole e le azioni dell’uomo giungano degnamente a Dio. Così, coloro che celebrano devono prendere il tempo ‘utile’, senza lentezze e senza lungaggini, curando le concatenazioni, misurando la velocità della dizione, rispettando i momenti di pausa. Quando il presbitero che presiede è arrivato alla sede, non inizierà col segno della croce sull’ultima nota del canto d’ingresso, ma lascerà un ‘respiro’ di qualche secondo nel silenzio, per permettere a se stesso e ai fedeli di raccogliersi alla presenza di Dio. Il passaggio dai riti di introduzione alla liturgia della Parola (o almeno dalla liturgia della Parola alla liturgia eucaristica potrebbe essere accompagnato - quasi ‘rinfrescato’ - da un istante d’organo. Il lettore (sacerdote celebrante compreso) lascerà ai fedeli il tempo di sedersi e di predisporsi all’ascolto prima dell’inizio della lettura o dell’omelia. In una cattedrale italiana avviene che il celebrante sosta alcuni istanti, mentre suonano le campane, prima di iniziare il dialogo del prefazio. La voce-guida non inviterà a leggere il “canto alla comunione” serrandosi alla fine del “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa…”.   Eccetera: perché, nel partecipare all’Eucaristia - dice qualche fedele - non si abbia l’impressione di “una catena di montaggio” inarrestabile e soffocante.    

     Dettagli, questi, senza importanza? Diciamo di no, se la celebrazione è e vuol essere un tutto “bello”, che risponda anche ad una esigenza di ‘tranquillità’, di tranquilla partecipazione di uomini e donne dalla vita quotidiana (individuale, familiare, sociale) carica di impegni e per lo più stressata, cui la preghiera fa ricuperare la dimensione umana-spirituale della calma, indispensabile al ‘buon vivere’. Sicuramente S. Giovanni Crisostomo non aveva per la mente l’ars celebrandi, quando pensava agli inconvenienti spirituali recati dalle «cose della vita quotidiana»; ma vale la pena ascoltarlo in una sua omelia: «Dobbiamo tornarcene da quell’assemblea portandoci dietro ogni sorta di beneficio, come se avessimo assistito a una festa, e uscirne muniti dei rimedi adatti alle nostre passioni, come se fossimo andati a consultare un medico. (…) Dimmi, cosa c’è di più dolce della maniera in cui qui si passa il tempo? E se anche si dovesse restare ancor più a lungo, che cosa ci sarebbe di più venerabile, di più sicuro? Ci sono tanti fratelli; c’è lo Spirito santo; c’è Gesù in mezzo a noi; c’è il Padre. Saresti in grado di trovare un’altra assemblea paragonabile a questa? (…) Quanti beni sulla tavola, nell’ascolto [della Parola], nelle benedizioni, nelle preghiere…!». Così - egli continua - tutta l’assemblea perviene a quella condizione di calma interiore che i padri greci, usando una metafora marittima, chiamano “galène”, «tempo calmo e sereno».

      Insomma, scrive suggestivamente un monaco benedettino: «Diamo alla liturgia tutto lo spazio e il tempo di cui ha bisogno. Non ci sia nulla, in essa, di sacrificato o di troppo pesante e opprimente, né i suoni, né la luce, né i protagonisti. Lasciamo alla Parola, alla preghiera, alle melodie, ai raggi di luce, all’incenso, il tempo e lo spazio (…) per toccare Dio e toccare l’uomo, il tempo e lo spazio per andare e tornare. Tutta la liturgia  sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato (…) dove s’intrufolano gli angeli. Lasciamo agli angeli il tempo e lo spazio: essi concelebrano con noi, come ci assicura tutta la tradizione liturgica. La bellezza della liturgia è la sua ariosità» (F. Cassingena-Trévedy, “La bellezza della liturgia”, Qiqajon).  



Don Giancarlo Boretti

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