jueves, 24 de noviembre de 2011

CELEBRAR CON « ARTE »


          Dicono i competenti che il termine “arte” ha origine dalla radice indoeuropea r’tam, che significa “mettere in ordine”. Secondo questa derivazione esula, come prima istanza, dal concetto di “arte” l’idea del ‘bello artistico’ nel nostro comune intendere culturale: il ‘bello’ dell’‘opera d’arte’ dei grandi pittori, scultori o architetti, ecc.


L’arte di celebrare non si riduce alla presenza di ‘oggetti artistici’ nella celebrazione. Si tratta invece di un “porre in ordine” parole, canti, gesti, cose, persone, movimenti: di rispettare per così dire le “regole del gioco”, le regole del succedersi di azioni o di eventi in modo che diano il senso giusto al loro insieme, facendo sì che quelle azioni e quegli eventi siano davvero ciò che devono essere nel modo migliore possibile. Nella liturgia, allora, celebrare con “arte” non significa anzitutto mettere al primo posto la presenza di oggetti “artistici” (paramenti, arredi, musiche, sculture, …), ma  “ordinare” con dignità lo svolgimento del rito in tutte le sue parti e con tutte le sue esigenze celebrative. Da questo punto di vista, si può celebrare male - senza “arte” - in una chiesa gotica o barocca con un calice del XVII secolo ed eseguendo una messa di Schubert o di Mozart, qualora mancasse quell’‘ordine’; come si può celebrare bene - con “arte” - in una chiesa modesta, con un calice semplice e con canti ordinari, se i diversi elementi liturgici sono ordinati in modo armonico e dignitoso. Quanto ad arte pura e arte funzionale nella liturgia, vale la pena di ricordare (quasi ‘battuta’ umoristica) un’immagine usata da S. Agostino a proposito del canto della Chiesa: egli lo paragona a una calzatura di cui ognuno sa bene che non è sufficiente che sia bella perché vi si possa camminare comodamente!





     Lo «splendore» della liturgia


     Fin dai primi tempi della riforma liturgica parlare di liturgia “splendida” o di “splendore” dei riti liturgici a dir poco lasciava perplessi (esageratamente) liturgisti e animatori: il Concilio Vaticano II aveva dato il via ad un cammino di semplificazione e di spogliazione purtroppo non rettamente inteso, nonostante le dichiarazioni dei documenti conciliari e dei successivi sviluppi orientativi. Bastino, a indicare ancora la giusta direzione, le parole della costituzione “Sacrosanctum Concilium”: «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (n. 34). Nulla di più chiaro, in questo testo, nell’indicare l’autentico “splendore” della liturgia: la solennità della semplicità. L’arrivarci parrebbe cosa naturalmente realizzabile. Di fatto, però, il rimanere nel mezzo fra celebrazioni ‘enfatiche’ (da ‘spettacolo’) e celebrazioni ‘disadorne’ (senza ‘ordine’ e dignità), nel corso del post-Concilio non si è dimostrato cosa dovunque diffusa. I «rischi» segnalati anche dai vescovi italiani  - «stanchezza» e ricerca dello «spettacolare» nelle celebrazioni - sono sempre dietro l’angolo e spesso palesi. A eccessi, talvolta, di esuberanza espressiva (vedi uso improprio di canti e di musica strumentale) si contrappone - forse più frequentemente - la ‘povertà’ dei segni rituali, intesa e voluta come «nobile semplicità» ma in realtà tradotta in una sciatta semplificazione. Possiamo esemplificare:  trascuratezza o abbandono di abiti liturgici, abolizione dell’aspersione con l’acqua benedetta e dell’uso dell’incenso, gestualità non curata delle mani (degli occhi) e in genere del corpo, minore attenzione alla pertinenza dei testi nella collocazione rituale dei canti, monotonia (e frettolosità) vocale nel proferire i testi delle letture, delle orazioni, dei prefazi, della preghiera eucaristica; poca avvertenza nell’articolare i passaggi dei momenti rituali (anche con congrui spazi di silenzio). Val la pena ricordare che qualche antropologo dice di essere stato colpito, dopo il Concilio Vaticano, dalla “caduta” dei riti e della ritualità liturgica, osservando che dei riti e della ritualità in genere non può fare a meno il vivere individuale e comunitario.


                     


     “Ciò”, “come” e “perché”





     Presbiteri, diaconi, animatori e membri dei gruppi liturgici sono chiamati a impegnarsi seriamente nell’arte del celebrare, o nel celebrare con arte; come dire: non basta prendere in mano il lezionario, il messale, il repertorio dei canti, dove tutto è “preconfezionato” a dovere, e… «tutto è pronto: mettiamoci a celebrare!». Le Premesse generali, le introduzioni ai libri liturgici, le note pastorali riguardanti la liturgia devono essere lette, commentate, applicate al proprio servizio nella propria comunità cristiana. Quante volte ci si imbatte nella non-conoscenza dei cosiddetti Praenotanda che possiamo chiamare il “codice stradale liturgico”, dove con profondità di sapienza celebrativa e con ricchezza di norme o suggerimenti pratici l’arte del celebrare è capillarmente evidenziata. Si sente dire, talvolta, che per celebrare bene e partecipare attivamente alla liturgia è  sufficiente «il coinvolgimento della fede dei membri dell’assemblea», la loro «devozione». L’importante e il necessario non sempre è sufficiente. L’aspetto umano - la componente ‘tecnica’ - delle e nelle azioni liturgiche non si deve sottovalutare. Il “ciò” (che si celebra), il “come” (celebrarlo) e il “perché” (meritevole della premura celebrativa) occorre averli presenti per la migliore riuscita dell’azione sacra. Quanto al come, non si chiede certamente al sacerdote che presiede di essere nella dizione un perfetto presentatore di telegiornale: ma, a ben pensarci, gli viene domandato anche di più, e qualcosa di diverso; al lettore, non di essere un attore sul palcoscenico, ma sicuramente di offrire un servizio “umile” ed “eloquente” (direbbe S. Agostino); all’animatore del canto, non è domandata la perizia (e la gestualità) di un direttore d’orchestra, ma non meno di una certa capacità di guida musicale. Il rispetto di ciò che vuole la Chiesa - al più alto livello della sua manifestazione - e l’attenzione verso i fedeli convocati per celebrare, esigono un minimo fino ad un massimo di competenza in materia di tecnica espressiva, di comunicazione, di regia in un’azione di gruppo. La «nobile semplicità» della liturgia (v. “Sacrosanctum Concilium”, n. 34) suppone la profondità della fede, ma non può fare a meno di quella componente tecnica propria del celebrare ‘artistico’, secondo il buon ‘ordine’ liturgico. Ben vengano, poi, le opere d’arti, il cui scopo è di ‘abbellire’ la «semplicità»: il bello al servizio della Bellezza nel suo comunicarsi in verità e grazia. Chiunque svolga un ministero liturgico, accolga - se ce ne fosse bisogno - le severe parole che leggiamo in una lettera di S. Girolamo: «I marmi sono ben lucidi, sul soffitto a cassettoni splende l’oro, l’altare è messo in evidenza da pietre preziose; solo i ministri di Cristo non si distinguono affatto».         


                           


                                                       Don Giancarlo Boretti

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