sábado, 14 de enero de 2012

E IL VERBO SI È FATTO CARNE

A Nicea, nel 878 —nel medesimo luogo in cui nel 325 il primo concilio ecumenico dichiarava che Cristo è consustanziale a Dio Padre, contro le deviazioni di Ario—, la Chiesa  sottolinea la rappresentabilità di Cristo, di Maria, dei Santi. Sommando, per così dire, i due concili niceni, la Chiesa dichiara la rappresentabilità di Cristo, vero Uomo e vero Dio.


Ogni vedere risulta dunque esaltato dalla certezza che su questa terra, gettando ombra come ogni corpo, si è offerto agli sguardi umani, il corpo vero di Gesù, Verità incarnata. E poco conta se qualche artista veramente l’abbia ritratto, ciò che conta è questa possibilità di rappresentarlo.
Possibilità che l’arte sacra deve raccogliere e sublimare, servendo quel rito e quel culto che sono sacri, perché in essi ritorna, nascosto (non avvertibile, invisibile) nelle specie del pane e del vino, il corpo vero di Gesù[1].  

In un certo senso, l’opera d’arte, e tanto più l’opera d’arte sacra, assolve il non facile il compito di sollevare, anche se per pochi istanti, il velo della nostalgia e di farci vedere, anche se imperfettamente, il volto dell’amato[2]. Come l’emigrante che, nella solitudine della lontananza, alla fine della giornata, quando tutto assume proporzioni diverse e l’oscurità insidia la vedibilità del creato, per fuggire i “fantasmi” dello scoramento, mosso dalla nostalgia, guarda in una vecchia foto gualcita dal tempo, il volto dell’amata, e guardandola aumentano insieme il desiderio e la speranza del ritorno a casa; così  l’homo viator nell’esilio della vita, può portare con sé, nella tasca  vicino al cuore, limmagine dell’Amato, quel ritratto che gli fa ricordare dov’è “realmente” la sua vera famiglia, nella Patria in cui ciascuno desidera, infine,  approdare.

di Rodolfo Papa




[1] La Gallo istituisce una “certa analogia tra sacramenti e immagini sacre”: “Anche l’icona appartiene in qualche modo all’economia sacramentale, che si fonda sulla divina incarnazione. Le cose che servono per i sacramenti, acqua, vino, pane, cambiano natura per una scelta di Dio, divengono tramite di operazioni divine. Le cose che servono a realizzare un’immagine sacra, cose materiali ed elementi espressivi di sensibilità, arte, cultura, tecnica, una volta soggiogate realmente dall’obbedienza della fede, anch’esse, in qualche modo, cambiano natura, diventano annuncio efficace del mistero cristiano e insieme mezzo di comunione di ciascun battezzato con questo mistero e con tutte le persone in esso coinvolte in cielo e sulla terra, in Dio e nell’universo creato, nel secolo presente e nell’eternità creata” Gallo, op. cit., pp. 23-24.


[2] Plinio al capitolo XXXV della sua Historia Naturalis riferisce un racconto sull’origine della pittura e della scultura, in cui si evidenzia come l’arte nasca dalla volontà di mantenere presente il volto della persona amata: “Butade Sicionio, vasaio, per primo trovò l’arte di foggiare ritratti in argilla, e questo a Corinto, per merito della figlia che, presa d’amore per un giovane, dovendo quello andare via, tratteggiò i contorni della sua ombra, proiettata sulla parete dal lume di una lanterna; su queste linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto; fattolo seccare con gli altri oggetti di terracotta, lo mise in forno e tramandano che fu conservato nel Ninfeo finché Mummio non distrusse Corinto” Plinio, Storia naturale, Einaudi, Torino 1988, pag. 473.

0 comentarios:

Publicar un comentario