domingo, 27 de noviembre de 2011

«VERSO IL POPOLO»

Non sono sopite le discussioni (e qualche polemica) circa la celebrazione liturgica “rivolta a”: rivolta a Dio, con il sacerdote presidente che volta le spalle all’assemblea; o rivolta all’assemblea, con il sacerdote presidente che ‘la guarda’. Non entriamo nel merito. Accenniamo soltanto che non è questione soprattutto di  corpo e di ‘spalle’ ma innanzi tutto di mente e di ‘cuore’: al Signore ci si rivolge “in spirito e verità”, sia personalmente che comunitariamente, comunque ci si ponga con il corpo davanti a lui, l’Onnipotente e il Presente. Tuttavia, una certa ‘riscoperta’ del corpo che partecipa alla liturgia - e alla liturgia come azione di tutta l’assemblea - ha suggerito una priorità, universalmente diffusa, quanto a postura del presidente dell’assemblea: la celebrazione liturgica «versus populum» (v. Ordinamento generale del Messale romano, n. 299). Leggiamo il paragrafo: «L’altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo». In riferimento poi alla sede del presidente: «La sede del sacerdote celebrante deve mostrare il compito che egli ha di presiedere l’assemblea e di guidare la preghiera. Perciò la collocazione più adatta è quella rivolta al popolo» (n. 310). Etimologicamente, “presiedere” significa “stare (seduti) davanti”.


     Ora ci si guarda
… poiché fu subito fatto: i nuovi altari (definitivi o provvisori) - più o meno ‘riusciti’ quanto a dignitosità artistica, ma più ‘funzionali’ quanto al «versus populum» - hanno occupato i nostri presbitèri. Così «adesso ci si guarda in faccia, preti e fedeli» - dice qualcuno con soddisfazione; o : «adesso ci si sente di più “popolo-famiglia di Dio”» - asserisce qualcun altro con più profonda intuizione. Bene: perché no? Ma vi è chi solleva lo sguardo oltre il nuovo altare per guardare (desiderando magari con nostalgia) il vecchio, «quello di dietro»: «Peccato non celebrare più la Messa all’“altare maggiore”, così affascinante nella sua armonia e nella sua ricchezza marmorea! Quando, poi, lassù in alto si esponeva il Santissimo…». Soltanto un ritorno sentimentale al passato o anche memoria di una realtà eucaristica viva e accolta in fervida adorazione? Fra l’altro, dal punto di vista estetico non è superfluo ricordare l’omaggio che l’arte, lungo i secoli (e specialmente dopo il concilio di Trento), ha voluto e saputo offrire all’Eucaristia e alla sua presenza con altari ‘monumentali’, capaci di esaltare la grandezza e la bellezza del Dio-con noi. Quasi mediando fra il passato e il presente, decenni fa un liturgista ha scritto: «L’Eucaristia viene certamente indicata come oggetto di adorazione, ma soprattutto si cerca di studiarne più profondamente il senso alla luce della Sacra Scrittura, per un suo inserimento più profondo nel tessuto della vita cristiana in tutti i suoi aspetti: da quello ecclesiale a quello familiare, da quello teologico a quello spirituale» (S. Marsili). Anche per questo maggior “inserimento” fu buona cosa far sì che sacerdoti e fedeli “si guardassero”, celebrando i santi misteri.

     Ma non sempre
ci si guarda in faccia. Ci sono momenti rituali in cui il celebrante non è rivolto - né si rivolge con lo sguardo - al popolo: per esempio, all’inizio e al termine della celebrazione egli si rivolge e guarda al crocifisso, all’altare, al tabernacolo; quando recita il “Confesso” o la piccola litania penitenziale, oppure pronuncia le orazioni, il prefazio, il Gloria, il Credo, ecc. non guarda all’assemblea; durante le azioni liturgiche in cui si invocano i Santi il celebrante si inginocchia voltando le spalle al popolo. Anche questo non rivolgersi con gli occhi e voltare le spalle  all’assemblea è certamente un forte richiamo all’incontro con Dio, al quale insieme bisogna essere sempre  toto corde ‘rivolti’.  
     Non è chi non veda, comunque si voglia ragionare sul ‘rivolgersi’ a Dio e all’assemblea, quanto nella liturgia la parola abbia però bisogno, oltre che di una buona ‘dizione’, anche di una buona ‘trasmissione’.  

     Col buon uso del sonoro
     Che un impianto di trasmissione sia dovunque necessario può essere suggerito da una certa moda mediatica. È una convinzione errata che, in mancanza del microfono, la parola sia sempre depauperata e inascoltata, e che il canto venga screditato.  L’esperienza insegna che, potendo fare a meno dell’amplificazione - si tratta di ‘provare’, migliorando anzitutto la qualità del dire -, la parola e il canto si trasmettono e giungono all’orecchio più ‘puri’, più naturali e meno disturbanti.
Bisogna ovviamente fare i calcoli con l’ampiezza, con le qualità acustiche del luogo e con il numero dei partecipanti alle celebrazioni. La trasmissione ‘meccanica’ causa per lo più un appiattimento dei rilievi sonori; la sorgente non è il prete che parla o il coro che canta, ma l’altoparlante! La conseguenza è il decentramento - una specie di omologazione spaziale - dei luoghi celebrativi principali (sede, altare, ambone) e della posizione degli animatori liturgici (salmista, cantore, coro): un’audizione uniforme nuoce alla esigenza degli spazi diversi richiesti da un celebrare anche localmente ben distribuito. Benvenuti, comunque, i ‘buoni’ impianti di sonorizzazione, che portano la parola a tutti, agevolandone l’ascolto. Certamente, occorre ‘dosarli’ e ‘usarli’ sempre con cautela, sapendo variare la distanza nel porsi davanti ai microfoni, col tener conto sia delle loro caratteristiche che dell’azione vocale in atto (a partire dal tipo di voce di chi vi parla o vi canta): sfumature espressive diverse richiedono il proclamare, il pregare, l’invitare, il commentare, l’informare; alla fine della Messa, non è raro il caso di sentir dare gli avvisi e recitare l’orazione con lo stesso tono e volume di voce!

     Per entrare nel mistero
     Grazie a Dio, siamo lontani dal tempo in cui, con le spalle rivolte al popolo e con qualche “Dominus vobiscum” con le mani allargate, la lingua stessa - il latino - menomava sia la partecipazione del popolo all’Eucaristia che la presidenza del celebrante. Purché non si creda che la “partecipazione attiva” esteriore ed interiore sia automaticamente garantita dal semplice ‘non voltare le spalle’ e dal ‘rivolgersi all’assemblea’! Credo che avesse un poco di ragione quel volonteroso sacerdote anziano, il quale, nella fatica di far capire ai suoi parrocchiani il valore della liturgia rinnovata dal Concilio, diceva con arguzia: «La Messa, cantata in latino o detta in italiano, per i miei fedeli è sempre celebrata in ebraico!». Il sentire i testi nella lingua parlata, o il parlarsi ‘vis-à-vis’, non basta all’interiorizzazione dell’azione liturgica, dei misteri celebrati. Per entrare nei misteri celebrati necessita una pedagogia, una introduzione - una mistagogia - ‘a fuoco lento’, sapiente e permanente, sistematica e occasionale. Vale la pena di citare un liturgista del secolo scorso, che fu tra i migliori maestri nel condurre al senso teologico della liturgia: «Capire che tutta la storia sacra è mistero di Cristo, che in essa prima di Lui tutto tende a Lui; (…) far sì che [tutti al mistero] partecipino e si dissetino alla sua pienezza, è capitale per entrare nel mondo della liturgia. La liturgia, infatti, non è altro che un certo modo per cui Cristo, in questo tempo intermedio (…), in questo tempo escatologico già in atto, comunica la pienezza della sua vita divina alle singole anime, riproduce in esse il suo mistero, le attrae nel suo mistero» (Cipriano Vagaggini).

     E con una presidenza “esposta”
     Qualcuno ha scritto che, rispetto a ‘quel’ tempo, ‘ora’ tutto è esposto alla vista! Il presidente dell’assemblea - come il lettore o il salmista o il cantore - “espone” a tutti le espressioni del volto, il movimento degli occhi, la posizione delle mani (ed anche gli eventuali ‘tic’), con il suo raccoglimento o con le sue distrazioni. Non gli deve mancare, perciò, l’avvertenza e la convinzione che tutto il suo corpo parla in ogni momento della celebrazione. E come parla il suo corpo, che cosa dice? Non gli è permesso né di sottrarsi agli sguardi di tutti (spesso perfino supercritici), né di comportarsi come se nessuno lo veda (non basta la retta intenzione di porsi e di essere sotto lo ‘sguardo’ di Dio), né di non lasciarsi ‘plasmare’ in qualche maniera nei suoi comportamenti da coloro che con-celebrano (si pensi alla presenza dei bambini o dei malati o degli anziani o dei familiari del defunto o degli ‘amici’ degli sposi). Anche da questo punto di vista, il suo ruolo è impegnativo. Insieme, però, straordinario: «È straordinaria mi pare l’immagine del prete che si presenta sull’altare per compiere gesti che sono misteriosi ma misteriosamente efficaci» - scrive lo psichiatra Vittorino Andreoli; per allargare poi il suo pensiero e scendere ancor più in profondità, continua: «La liturgia: il prete tace e celebra. Così parla di Dio in maniera che sfugge in parte a lui stesso». Non è anche in questo senso che va interpretato l’‘agire’ del celebrante in persona Christi?
     A colui che presiede la liturgia non è dunque concessa la ‘ripetitività’: come non è ‘ripetitivo’ il mistero celebrato e offerto, con le stesse parole, gli stessi gesti, gli stessi canti, le stesse persone.  

Don Giancarlo Boretti   

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