Tomás H. Jerez

sábado, 15 de enero de 2011

LE ICONE COME IL CANTO GREGORIANO

L'attenzione della Chiesa di Roma verso le Chiese dell'Oriente è una costante della sua storia, non affievolita dallo scisma del 1054. In essa ben si inserisce, come un segno di particolare attenzione, la collezione di immagini sacre - espressione della teologia, della religiosità e dei canoni estetici del cristianesimo greco-bizantino e slavo - che in più riprese, attraverso un lungo arco di tempo, sono entrate a far parte delle raccolte museali vaticane.

Il primo nucleo di trenta Icone venne esposto nel 1762 nel Museo Sacro della Biblioteca Apostolica, regnando Papa Benedetto XIV Lambertini. In seguito altri nuclei collezionistici, databili fra XV e XIX secolo, si aggiunsero al gruppo originario. Oggi la Sala delle Icone, diciottesima della Pinacoteca, ospita centocinquanta pezzi di varia provenienza geografica e culturale:  la Grecia postbizantina, i Paesi balcanici, la Russia, l'area veneziana e dalmata, il Vicino Oriente.

Le iconografie ricorrenti sono quelle tipiche dell'area ortodossa:  La Dèesis (Cristo intercessore Pantocràtor), la Discesa di Cristo risorto agli Inferi (Anàstasis), il Transito della Vergine (Kòimesis), il Menologio (le immagini dei santi secondo il calendario liturgico), san Nicola e san Giorgio protettori della Russia, la Vergine Maria in tutte le tradizionali varianti dell'iconografia mariana. Uno dei pezzi più vistosi, anche se non dei più antichi, è l'Iconostasi di Cefalonia, realizzata nel 1808.

Questo prezioso insieme di arte e di fede è stato oggetto negli ultimi mesi di un accurato lavoro di restauro, di corretta revisione ambientale, di riordino scientifico e di informazione didattica. Sono state coinvolte le professionalità più diverse:  storico artistiche, climatologiche, illuminotecniche, di falegnameria, di arredo e così via. A tutti coloro che a diverso livello hanno collaborato per il lungo e meritorio impegno nella ricomposizione di questa sala desidero esprimere ammirazione per il risultato raggiunto e la gratitudine del Governatorato, della Santa Sede e mia personale.

Nell'ambito della Pinacoteca Vaticana questa sala ha, mi sembra, un suo significato culturale e religioso che non dovrebbe sfuggire. Balza infatti subito all'occhio che l'arte delle icone non ha avuto un'evoluzione parallela a quella della pittura nell'arte sacra della Chiesa Latina:  un fenomeno che - se mi è concesso il salto in un'altra arte - trova una certa analogia solo nella fissità del canto gregoriano rispetto all'altra musica ecclesiastica.

L'arte dell'icona si è sviluppata a partire dalla più antica tradizione, e in aderente conformità a essa, traendo ispirazione da una sua propria teologia fondamentale o, propriamente, fondante, rimasta immutata nei secoli. Essa ha la sua magna charta nel concilio ecumenico Niceno II, su cui tornerò brevemente appresso. Determinante è stata anche la iconografia, cioè i precisi canoni di pittura, sia formali e tecnici che contenutistici, che reggono la produzione delle icone, e, non meno influente, la sua ricca spiritualità che quasi avvolge il divenire e l'essere dell'icona. È una spiritualità che congiunge, da una parte, l'immagine stessa e il suo termine di riferimento soprannaturale, così come colui che ha il privilegio spirituale di portarla alla luce, l'iconografo, che pertanto accompagna e sostiene il proprio dipingere con la preghiera; e, dall'altra, coloro a cui l'immagine è diretta, e che ne sono attesi come fruitori nell'azione liturgica o nella devozione domestica e privata. L'arte delle icone è sempre intesa come arte sacra, arte cultuale, anche quando non è destinata allo specifico servizio liturgico.

La volontà di lasciare trasparire in qualche modo la realtà divina a cui la figura dipinta è strumentale, così come l'intenzione di attirare e avvicinare alla realtà divina i fruitori dell'immagine, in atteggiamento di venerazione, richiede nell'iconografo purezza d'intenzione, umile volontà di servire; e per questo la firma, la personalità dell'autore scompare, pienamente soddisfatta di essere come assorbita e perduta in tale soprannaturale dinamismo (e per questo anche, a differenza dell'arte occidentale, non v'è - come noi oggi diremmo - "un diritto d'autore" o "diritto d'immagine", e la copia dell'immagine di una icona, o sue varianti, sono cose del tutto ovvie).


Questa grande, severa, ma anche feconda tradizione è stata osservata ovunque nelle diverse Chiese orientali con religiosa fedeltà, il che non significa con rigidità, potendosi facilmente riconoscere stilemi propri alle diverse epoche, ai diversi luoghi, e alle diverse scuole.


Nel rinnovamento dell'arte sacra occidentale, del quale da troppo tempo si avverte il bisogno, tali caratteristiche dell'arte delle icone, quale arte sacra esemplare, pongono qualche interrogativo. Certo la risposta - per essere valida - dovrà essere data congiuntamente dalla Chiesa e dagli artisti, nella consapevolezza di ciò che significa arte sacra. Il suo significato, per dirla con la formula lapidaria dello stesso concilio ecumenico Niceno II, che, come ho detto, è alla base della teologia delle icone, è questa:  "La venerazione dell'immagine passa al soggetto originario (tò protòtypon), e chi venera l'immagine, venera in essa la persona di chi vi è iscritta". È gàr tès eikònos timè / epì tò protòtypon diabàinei, / kài o proskynòn tèn eikòna / proskynèi èn autè toù eggrafomènou tèn upòstasin. I termini essenziali, come si vede, sono due:  tò protòtypon e ò proskynòn.


Con riferimento a essi l'impegno dell'artista di arte sacra deve essere sostenuto da una vigilante e pura sensibilità per il rapporto spirituale al cui servizio si pone, e nel quale quindi anch'egli non può essere estraneo. Il che significa almeno questo:  un soggettivismo o un relativismo oltranzisti non rispondono né al dettato né all'intenzione del concilio ecumenico Niceno II.

di Giovanni Lajolo

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