Partiamo dalla Costituzione sulla sacra liturgia SC, che parla esplicitamente dell’omelia nel n. 24 e, più ampiamente, nel n. 52; invece, in modo implicito, nei nn. 7 e 35. In questi testi vengono indicati molto succintamente: la natura dell’omelia, le fonti a cui essa fa riferimento nonché gli obiettivi che si propone. I documenti posteriori della Santa Sede, dalla prima Istruzione della Congregazione dei Riti IŒ, pubblicata un anno dopo SC, nel 1964, fino al CIC del 1983 e oltre, riprendono, precisano e talvolta sviluppano quanto affermato nei testi conciliari. Non intendiamo esaminare in dettaglio questa abbondante documentazione. Qui ce ne interessiamo soprattutto e limitatamente in ordine ad approfondire l’argomento di questa nostra riflessione.
1. Natura e fonti dell’omelia. SC, al n. 52, descrive l’omelia come “parte della stessa liturgia” (“pars ipsius liturgiae”). Anche se il documento conciliare non lo dice, l’affermazione proviene dall’enciclica Mediator Dei di Pio XII che, tra le azioni liturgiche o “riti” annovera: in primo luogo i sette sacramenti, poi la celebrazione della lode divina, la lettura delle Scritture e, infine, l’omelia (“ac postremo homilia, seu sacra concio”). L’affermazione della SC, è ripresa poi dal CIC, can. 767 § 1. L’IGMR, al n. 29, si esprime in modo simile quando parla dell’omelia come “parte dell’azione liturgica”. L’OLM, al n. 24, precisa che l’omelia “è parte della liturgia della Parola”, affermazione però da intendersi, quando si tratta della celebrazione eucaristica, non limitatamente alla prima parte della messa ma riguardante l’intera celebrazione perché, come afferma SC, al n. 56, “la liturgia della parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto”. Infatti l’OLM aggiunge, al n. 24, che l’omelia “deve guidare la comunità dei fedeli a partecipare attivamente nell’Eucaristia”; e nel n. 41, si dice che l’omelia “guida i fratelli a intendere e a gustare la sacra Scrittura, apre il cuore dei fedeli al rendimento di grazie per i fatti mirabili da Dio compiuti; alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella Parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa Sacramento; li prepara infine ad una fruttuosa comunione”. L’omelia quindi non è una parentesi nella celebrazione, ma un atto specifico ed essenziale che non deve rompere – ad esempio con l’uso di un linguaggio eccessivamente familiare o persino “volgare” – il dinamismo misterico in cui anche l’omelia si iscrive.
Seconda affermazione importante del n. 52 della SC è che nell’omelia “vengono presentati, dal testo sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana”. Anche qui la fonte a cui si ispira il testo conciliare sembra che sia l’enciclica Mediator Dei, secondo cui l’omelia commenta i precetti del Divino Maestro e gli eventi rilevanti della vita di Cristo con opportune esortazioni ed esempi. I documenti successivi riprendono l’affermazione del n. 52 della SC: così CIC, can. 767 § 1; OLM, n. 24. Come abbiamo visto sopra, pure qui le Premesse all’OLM precisano di più quando affermano, al n. 24, che l’omelia “deve guidare la comunità dei fedeli […] ad esprimere nella vita ciò che hanno ricevuto mediante la fede”, e nel n. 41 si aggiunge che l’omelia “esorta (i fedeli) ad assumersi gli impegni della vita cristiana”. Da parte sua, il CCC, al n. 1349 dice che l’omelia esorta ad accogliere la Parola della Scrittura “come è veramente, quale Parola di Dio” (1Ts 2,13) e a metterla in pratica.
Per quanto concerne le fonti dell’omelia, ricordiamo che nel n. 24 della SC si afferma: “Massima è l’importanza della sacra Scrittura nel celebrare la liturgia. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell’omelia…”. La stessa Costituzione però, nel n. 52, dice che nell’omelia “vengono presentati, dal testo sacro (“ex textu sacro”), i misteri della fede…” Ad un Padre conciliare che chiedeva che fosse affermato esplicitamente che si trattava del testo sacro da cui nella Messa era stata presa la lettura (“ex quo in Missa lectio sumpta est”), la Commissione rispose che anche se per sua natura ciò è vero, non si è voluto parlare in modo restrittivo dato che alcuni santi Padri hanno fatto omelie commentando anche altri testi della Messa. L’Istruzione IŒ, al n. 54, si esprime in modo più esplicito al riguardo: “Per omelia, da tenersi dal testo sacro, si intende la spiegazione di qualche aspetto delle letture della sacra Scrittura, o di altri testi dell’Ordinario o del Proprio della Messa del giorno, tenendo in debito conto il mistero celebrato e le particolari esigenze degli ascoltatori” (cf. anche IGMR, n. 65).
2. Gli obiettivi dell’omelia. Si può ben dire che il primo obiettivo dell’omelia è quello di rendere vivi, viventi, vivaci e soprattutto vitali i testi della Scrittura (e/o testi sacri) che sono stati, in un certo modo, riesumati attraverso la proclamazione. Più in particolare, da quanto detto sopra, possiamo dedurre che l’omelia deve avere una dimensione mistagogica ed una dimensione dottrinale – parenetica, e che ambedue le dimensioni sono ordinate alla santificazione del popolo di Dio partecipante.
Se l’omelia è, come detto sopra, “parte della stessa liturgia” (SC, n. 52; CIC, can. 767 § 1; ecc.), essa è un “pezzo” del rito stesso, collegato organicamente e funzionalmente con tutti gli altri elementi della celebrazione, parte integrante dell’intera celebrazione. Si può quindi applicare all’omelia quanto SC afferma, al n. 7, sulla natura della liturgia in genere, e cioè che mediante essa si “realizza – tra l’altro – la santificazione dell’uomo”. Detto questo però occorre precisare in che modo l’omelia assolve questo suo compito.
2.1. La dimensione mistagogica. L’omelia svolge il suo compito santificante, in primo luogo, attraverso il coinvolgimento nell’esperienza e nella grazia del Mistero celebrato. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “La catechesi liturgica mira a introdurre nel mistero di Cristo (essa è infatti ‘mistagogia’), in quanto procede dal visibile all’invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai ‘sacramenti’ ai ‘misteri’ [...]” (n.1075). La riscoperta del metodo mistagogico è un frutto prezioso del ritorno ai Padri che caratterizza la Chiesa d’oggi nel suo impegno catechetico - pastorale.
Per i Padri la mistagogia è “un insegnamento ordinato a far capire ciò che i sacramenti significano per la vita, ma che suppone l’illuminazione della fede che sgorga dai sacramenti; quello che si impara nella celebrazione rituale dei sacramenti e quello che si impara vivendo in accordo con ciò che i sacramenti significano per la vita”. Il metodo mistagogico usato dai Padri identifica tre elementi: la valorizzazione dei segni in ordine ad introdurre i fedeli nel mistero celebrato; l’interpretazione dei riti alla luce della tipologia biblica; l’apertura all’impegno cristiano ed ecclesiale, espressione della nuova vita in Cristo.
La dimensione mistagogica appartiene strutturalmente all’azione rituale cristiana in quanto contemplazione e rappresentazione del mistero. E’ la celebrazione stessa che è propriamente mistagogia o “esperienza dei misteri”. Ma a scanso di equivoci, bisogna ricordare che pur essendo importante la nostra risposta all’azione santificante, è Dio che provoca l’esperienza in noi, essendo lui il mistagogo, e non tanto noi che facciamo esperienza su di lui. Salvaguardata l’oggettività del dono, è chiaro che Dio rimane libero di donare una più grande intensità alla sua comunicazione sacramentale, come può accadere sia per il dono gratuito che egli vuole elargire, sia anche per l’intensità della vita teologale di coloro che partecipano alla celebrazione liturgica.
La dimensione mistagogica richiede una liturgia contemplativa che accordi il primato all’interiorità e all’interiorizzazione, ovvero una liturgia dell’appropriazione personale da parte del cristiano di ciò che si dice e si fa nell’azione rituale. Potremmo dire una liturgia più spirituale e meno conviviale. Più contemplativa e meno festaiola. Dove ci siano meno parole e più Parola. Meno segni improvvisati e più significati compresi. “Fare festa” sembra essere stato in alcuni ambienti dal Concilio ad oggi la forma liturgica per eccellenza. L’autentica festa liturgica cristiana è anzitutto interiore, silenziosa, pacata e sobria, perché è festa della fede. Pochi anni dopo la promulgazione della Costituzione sulla sacra liturgia, l’Istruzione MS, al n. 11, spiegava cosa s’intende per solennità della celebrazione liturgica: “Si tenga presente che la vera solennità di un’azione liturgica dipende non tanto dalla forma più ricca del canto e dall’apparato più festoso delle cerimonie, quanto piuttosto dal modo degno e religioso della celebrazione, che tiene conto dell’integrità dell’azione liturgica, dell’esecuzione cioè di tutte le sue parti, secondo la loro natura…”
Un’omelia “mistagogica” è quella che – insieme agli altri elementi della celebrazione – introduce all’esperienza del fatto che l’evento della salvezza annunziato dalle letture non è racchiuso nel passato, ma si attua “qui e adesso” nel presente per noi, nella celebrazione e in ragione di essa. Il messaggio omiletico trova il suo contesto nella “fede della Chiesa” (non è il momento delle opinioni personali, ma del sentire “cum Ecclesia”), ed è volto ad informare la vita, attingendo alla celebrazione dei santi misteri. Benedetto XVI chiede “ai ministri di fare in modo che l’omelia ponga la Parola di Dio proclamata in stretta relazione con la celebrazione sacramentale e con la vita della comunità, in modo tale che la Parola di Dio sia realmente sostegno e vita della Chiesa”.
2.2. La dimensione dottrinale – parenetica. L’omelia ha una sua dimensione dottrinale – parenetica, già presente in qualche modo in quella mistagogica. Parliamo di “una” dimensione abbinando dottrina e parenesi illuminati dagli scritti paolini, nei quali la parte dottrinale e quella parenetica (che non mancano mai) sono sempre in stretto rapporto quasi formando un unicum. Diciamo subito che bisogna evitare la ricaduta nel discorso dogmatico come ideologia o in quello moralistico come pura norma, che hanno talvolta imperversato in tempi non troppo lontani. Parimenti però bisogna liberarsi da una certa afasia dottrinale ed etica, propria del pensiero debole che caratterizza il nostro tempo, e che lascia libero campo al sentimentalismo e non osa affrontare temi dottrinali ed etici rilevanti. Francesco d’Assisi esortava i suoi frati: “Ammonisco ed esorto gli stessi frati che nella loro predicazione le loro parole siano ponderate e caste a utilità ed edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso poiché il Signore disse sulla terra parole brevi”.
Se è vero che la liturgia non è il logos (= dottrina) né l’ethos (= etica) del mistero, è però anche vero che essa è il suo symbolon, cioè la mediazione simbolica che mette in rapporto e condensa al tempo stesso la dottrina e l’etica e necessita di ambedue per conservare la sua piena autenticità.
L’omelia non è una lezione di esegesi o di teologia sistematica, né un discorso in qualche modo spiritualeggiante, né tanto meno un intervento socio – politico. Si tratta di attualizzare la parola di Dio (o/e il testo sacro) annunciata e celebrata in un determinato contesto cultuale. Cosa si intende per “attualizzare” la parola Dio? L’OLM afferma, al n. 24, che “l’omelia nella celebrazione della Messa ha lo scopo di far sì che la proclamazione della parola di Dio diventi, insieme con la liturgia eucaristica, ‘quasi un annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo’(SC, n. 35,2)”. Questo mistero nascosto da secoli in Dio, rivelato, manifestato e realizzato in Cristo attraverso e nella Pasqua, è presente nella celebrazione secondo la modalità del “memoriale”. La forma dell’annuncio fa riferimento al carattere di evento che è proprio della parola predicata; carattere che è appunto omogeneo alla qualità della celebrazione tutta.
Per quanto concerne la parenesi, prima ancora che esortazione ad assumere un buon comportamento morale, dovrebbe essere proposta di fede, e quindi invito a credere, ad approfondire la propria fede, a rinvigorirla e, soltanto dopo, a partire da una decisione di fede o da un suo rinnovato approfondimento, a vivere in modo coerente. L’esortazione morale è cristiana quando si pone all’interno di una proposta di fede, cioè quando prende via dall’annuncio delle mirabili opere compiute da Dio nella storia della salvezza. La forma del discorso non deve essere quella che mette a tema il testo, ma quella che mette a tema Dio stesso e la sua attuale ed efficace presenza nella vita dell’uditore e dell’assemblea partecipante. Il testo dovrebbe suggerire all’omileta le parole mediante le quali rivolgersi ai suoi uditori, per dire ciò di cui è questione nella loro stessa vita. L’omelia esige conoscenza profonda della Scrittura e attenta sensibilità ai problemi e alle attese della comunità; richiede inoltre scrupolosa onestà morale e intellettuale, perché mai la parola dell’uomo (dell’omileta) abbia a sostituirsi, o anche solo a far velo, alla parola di Dio. L’omelia dovrebbe essere “celebrata” a partire dalla stessa interiorità della comunità in ascolto del suo Signore, tanto da far percepire ai fedeli – attraverso la voce dell’omileta – che “Cristo è presente e attivo tra noi” (cf. SC, nn. 7; 35,2)
A differenza dello psicologo e del terapeuta, l’omileta è chiamato a esporre il normativo, e cioè “le norme della vita cristiana” di cui parlano i documenti sopra citati, in modo da portare l’uditore a riflettere sul proprio quadro di valori e a trarne le dovute conseguenze. Superando il rischio, non infrequente, di un linguaggio farisaico o colpevolizzante l’omileta deve proporre contenuti in nome della Parola rivelata e nella linea dell’interpretazione che di essa ne fa la Chiesa anche nel contesto celebrativo alla luce dell’aforisma lex orandi lex credendi. Da parte del fedele a cui è rivolta l’omelia, si richiede una capacità di ascolto che si diversifica da altri contesti e che si traduce in scelte di vita cristiana improntate ad una spiritualità che scaturisce da una peculiare esperienza dello Spirito quale si attua nell’epiclesi sacramentale; si richiede, poi, una docilità ad accogliere una proposta di approfondimento non a titolo personale ma autorevole, di tipo magisteriale.
L’IGMR dice opportunamente che al termine dell’omelia, “si può osservare un momento di silenzio” (n. 136), silenzio che “è un richiamo a meditare ciò che si è ascoltato” (n. 45). Il “sacro silenzio” è da considerarsi un elemento strutturale di ogni celebrazione liturgica (cf. SC, n.30) attraverso cui i fedeli “si inseriscono più intimamente nel mistero che si celebra” (MS, n. 17). Nel nostro caso, è particolarmente attinente quanto affermano i Praenotanda all’OLM, n. 28: “La liturgia della Parola si deve celebrare in modo che favorisca la meditazione […] Il dialogo tra Dio e gli uomini, sotto l’azione dello Spirito Santo, richiede brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea, durante i quali la parola di Dio penetri nei cuori e provochi in essi una risposta nella preghiera. Tali momenti di silenzio in relazione con la liturgia della Parola si possono opportunamente osservare prima che essa abbia inizio, dopo la prima e la seconda lettura e al termine dell’omelia”. Se attuato in modo adeguato, il silenzio riempie lo spazio con altrettanto vigore della parola e del canto ed è segno di una certa maturità celebrativa.
3. Conclusione. Concludendo questa nostra riflessione, possiamo dire che l’omelia è un discorso piano e familiare con il quale il ministro che presiede la celebrazione si rivolge all’assemblea perché accolga fruttuosamente la Parola proclamata, abbia a partecipare consapevolmente all’evento salvifico celebrato, comprendendone i doni e gli impegni, porti il tutto nel vissuto quotidiano e dia frutti di vita santa. Notiamo che il testo biblico nella liturgia è celebrato (la liturgia è attuazione del testo biblico), è proclamato (il testo è messo in rapporto gerarchico e funzionale con gli altri testi biblici), è storicizzato (attraverso l’omelia che ha nei testi biblici, ma non esclusivamente in essi, la sua fonte).
Obiettivo dell’omelia non è tanto spiegare – l’ossessione di capire può invadere e avvelenare la celebrazione – , quanto far vibrare l’assemblea in un profondo giubilo interiore per “l’annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo” (OLM, n. 24) ancora in atto. Nella sua prima Lettera enciclica, Benedetto XVI ha voluto, fin dalle prime battute, ricordare che “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Così anche la Chiesa nel corso dell’Anno liturgico non celebra delle idee ma una Persona, Cristo. Come scrisse Pio XII, l’Anno liturgico è “Cristo stesso, presente nella sua Chiesa”. In questo contesto, compito dell’omelia non è solo quello di presentare un’etica e di esortare a osservarla o di esporre la dottrina e le convinzioni proprie della visione cristiana della realtà. Essa intende anzitutto mediare un avvenimento, rendere possibile l’incontro con Cristo. L’omelia è strumento per “dire qualcosa”, ma è soprattutto un modo per “entrare in contatto con Qualcuno”.
Se è vero che la parola di Cristo ha cessato di esistere come “evento”, esiste però come “sacramento”, come “sacramento che si ode”. La celebrazione restituisce alla Parola – Scrittura la sua natura originaria di parola – evento. La Parola nella liturgia è quindi un evento di grazia: non è il preludio al sacramento, ma è sacramento essa stessa. Di questa “sacramentalità” della Liturgia della Parola partecipa l’omelia. Come afferma l’Instrumentum laboris della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, “la Parola deve essere vissuta nell’economia sacramentale, come ricezione di potenza e di grazia, non solo come comunicazione di verità, di dottrina e di precetto etico” (n. 36).
Matias Augé
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