Tomás H. Jerez

martes, 28 de diciembre de 2010

LA CELEBRAZIONE EUCARISTICA, «ORIGINE» E «FINE» DELL’ADORAZIONE

«Il Sinodo dei Vescovi, riconoscendo i molteplici frutti dell’adorazione eucaristica nella vita del popolo di Dio in tante parti del mondo, incoraggia fortemente che questa forma di preghiera […] sia mantenuta e promossa, secondo le tradizioni, tanto della Chiesa latina quanto delle Chiese orientali. Riconosce che questa pratica scaturisce dall’azione eucaristica […] e ad essa riconduce»[1].


Sulla scia di una serie di pronunciamenti magisteriali[2], l’XI Assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi (2-23 ottobre 2005), mentre con vigore incoraggia il mantenimento e la promozione dell’adorazione eucaristica, esplicitamente riconosce la relatività di questa pratica nei confronti dell’«azione eucaristica», dalla quale l’adorazione «scaturisce» e alla quale «riconduce».
In sintonia con l’obiettivo del presente fascicolo di «Rivista Liturgica» (offrire elementi per educare a questa forma di pietas), vorrei suggerire alcuni atteggiamenti spirituali che, in coerenza con la normativa liturgica e con la prospettiva teologica che la ispira[3], consentano a chi si mette in adorazione di percepire e vivere effettivamente il legame tra questa esperienza e l’azione celebrativa. A tale scopo, assumo come filo conduttore un testo di G. Moioli, dal titolo: Il mistero dell’Eucaristia: pur riproducendo la predicazione tenuta durante un corso di esercizi spirituali, il volumetto porta l’impronta di una rigorosa riflessione teologica che mantiene tutta la sua attualità[4]. La fisionomia dell’adorazione eucaristica viene sinteticamente delineata in questi termini:
«L’adorazione dell’Eucaristia, al di fuori della celebrazione, è un rivivere personalmente, silenziosamente, il senso della celebrazione del mistero. La “perdurante presenza” del mistero eucaristico nella Chiesa è appello a riandare alla celebrazione dove il mistero “si fa” e così continuare a “vederlo”. Per questo l’adorazione eucaristica non è, per sé, una preghiera “comunque” davanti all’Eucaristia, non è un pensare o un meditare generico davanti all’Eucaristia; è, piuttosto, un mettersi davanti all’Eucaristia ricollocando questa presenza nel suo contesto e lasciandosi interpellare, provocare dal suo significato»[5].
L’adorazione è un pregare, un meditare, un sostare che prende forma da quella presenza che rimane dopo la celebrazione, derivando dalla celebrazione e rimandando ad essa. L’adorazione rappresenta dunque un ulteriore invito a «lasciarsi prendere», a «lasciarsi formare», distendendo, personalizzando e interiorizzando ciò che, in maniera «concentrata», ha avuto luogo nella celebrazione. Si intravedono qui due movimenti tra loro reciprocamente intrecciati: quello del lasciarsi formare/plasmare dal mistero celebrato, distendendo quanto la celebrazione ha messo in atto in modo concentrato. Dopo qualche riflessione sull’atto del «vedere l’ostia»[6] (1.), prendiamo in esame queste due dinamiche: quella del lasciarsi formare dal mistero (2.) e quella del porsi di fronte ad esso in modo disteso (3.).
1. Vedere l’ostia, guardare il mistero
Come ogni attivazione umana della sensibilità, l’atto del vedere unisce insieme un aspetto di attività e uno di passività. Volgendosi all’esterno, l’uomo incontra una realtà che è data al suo sguardo, che preesiste alla sua percezione visiva; tuttavia lo sguardo non si limita a registrare ciò che entra nel suo campo visivo come si trattasse di materiale grezzo; al contrario, lo sguardo elabora tale materiale, lo esplora, seleziona i dati, li collega fra loro e li inserisce in un determinato contesto. Solo così la realtà percepita assume significato e resta presente a colui che la percepisce. «La realtà così percepita non è data immediatamente, ma è frutto di una interazione»[7] tra lo sguardo del soggetto e ciò su cui esso si posa.
Nel caso dell’adorazione, il «vedere l’ostia» «non può che essere il vedere di un credente, cioè di chi nel vedere pone in atto le operazioni della fede»[8]. Una fede ex auditu, essenzialmente determinata dall’udire: auditu solo tuto creditur, «posso soltanto udire, ma questo basta a dare sicurezza alla mia fede»[9]. La parola che – udita – suscita la fede non può essere se non quella della Scrittura, che «svolge la sinteticità splendida del gesto eucaristico», rivelandone il significato e articolandolo attraverso una molteplicità di parole[10]. Una fede che fa vedere, perché implica la sottomissione del cuore: non vediamo veramente se non in quanto colui che vogliamo vedere è colui al quale abbiamo sottomesso il cuore: tibi se cor meum totum subjicit, «interamente a te si sottomette il cuore». Dunque, «sto a guardarti come uno che ti vede perché ode, e ti ode perché sottomette il cuore»[11].
Si possono collocare a questo punto alcune suggestive osservazioni che J.-L. Marion propone in riferimento al carattere eccedente del dono eucaristico rispetto alla capacità di recezione del credente[12]. Il dono della presenza reale è in sé totalmente compiuto, ma non lo è per noi, che non lo comprendiamo, non lo misuriamo, anzi lo tradiamo. Lo scarto tra l’Eucaristia e la comunità, tra il dono eucaristico e la nostra recezione è impossibile da ridurre. Esso rivela un difetto nella capacità di recezione dei credenti in rapporto all’ampiezza del dono che è loro fatto: non possiamo ricevere adeguatamente ciò che ci è donato, perché nessun cuore umano è all’altezza di concepirlo. Nel caso della presenza reale, siamo di fronte a quello che Marion chiama un «fenomeno saturo»: un fenomeno, cioè, che si dona con un’intuizione che la coscienza non può dominare nel suo orizzonte, né ridurre a oggetto costituito dall’io trascendentale. Esso non solo sospende la relazione di soggezione del fenomeno all’io, ma la inverte: di fronte all’avanzata del fenomeno saturo, che perturba le condizioni comuni dell’esperienza, il soggetto perde il suo statuto di polo costituente dei fenomeni e si ritrova piuttosto a essere egli stesso costituito dal loro donarsi.
Di fronte a un fenomeno di questo tipo, si ha un ritardo del concetto sul dato sensibile e una lentezza nel capire. Questa lentezza richiede il tempo della contemplazione eucaristica, il tempo di cercare di capire ciò che l’Eucaristia dice di se stessa, ciò che Cristo dà come significato a questa realtà sensibile. Il problema è quindi conferire al pane e al vino un significato adeguato a quello di Cristo. L’adorazione eucaristica, dunque, non è il modo per compensare con la nostra attenzione e il nostro esercizio psicologico di contemplazione una presenza non sufficientemente evidente; è piuttosto il tempo preso per imparare a renderci conto del dono che in essa ci è fatto. Non siamo noi, dunque, a giudicare l’Eucaristia, ma occorre fare completamente credito alle parole dette da Cristo.
Il vedere l’ostia, dunque, è il vedere di un credente. Di più: è il vedere di un credente che partecipa all’azione liturgica, all’interno della quale l’ostia acquista tutto il proprio significato. Anche quando l’ostia viene esposta all’adorazione, la sua identità resta radicalmente determinata dalla celebrazione eucaristica. Di conseguenza, «anche lo sguardo adorante non deve fermarsi all’ostia in sé, ma deve ritrovare tutto il mistero eucaristico di cui l’ostia è parte e a cui essenzialmente rimanda»[13]. Ecco perché, attraverso il «vedere l’ostia», l’adorazione diventa, più profondamente, un «guardare il mistero».
2. Lasciarsi formare dal mistero
Colui che rivolge il proprio sguardo al mistero, lo fa lasciandosi formare dal mistero: il suo guardare, il suo parlare e il suo tacere prendono forma dal senso del mistero. Un mistero, quello attuato attraverso la celebrazione eucaristica, che non si riduce a una generica presenza del Signore:
«Con l’Eucaristia non si passa dalla non presenza alla presenza di Cristo, ma dalla sua presenza multiforme al memoriale del suo donarsi in sacrificio, come modo specifico di presenza per la realizzazione della comunione con lui. L’Eucaristia è il sacramento del sacrificio pasquale di Cristo nel segno del convito; l’ostia è la presenza di Cristo che dona se stesso, che ci fa partecipi (commensali) della nuova alleanza nel suo sangue. Si tratta dunque di una presenza sacramentale che scaturisce dal memoriale di Cristo e il cui significato sta nel rendere possibile il nostro prendervi parte (tramite il mangiare e il bere), affinché diventiamo il corpo ecclesiale di Cristo»[14].
Occorre dunque lasciarsi formare dall’oggettività del mistero eucaristico, nel quale «“passa” la “Pasqua del Signore” che si destina alla Chiesa»[15]. Un passaggio adeguatamente precisato dalla categoria di «memoria»/«memoriale», che esprime il rapporto tra l’avvenimento singolare e irripetibile della Pasqua e il suo farsi presente, qui e ora: «La Pasqua “passa”, ma restando fissa: una volta per tutte è compiuta». Il gesto che ne fa memoria – la celebrazione eucaristica – «la attualizza senza moltiplicarla; le permette di essere qui e permette a noi di metterci in rapporto» con essa[16]. Passando nell’Eucaristia al modo della memoria, la Pasqua «fa la Chiesa come “memoria”. La Chiesa […] non è un corpo aggiunto alla realtà di Gesù Cristo. È quel popolo della nuova alleanza che, a suo modo, rivive, prende la forma del Signore morto e risorto», non ripetendone materialmente la vita, ma offrendo a lui la propria testimonianza viva[17].
La Pasqua che «passa» nell’Eucaristia è evidentemente l’unità salvifica del mistero pasquale, nel suo duplice aspetto di morte e risurrezione. Non c’è però un «filo diretto» tra l’Eucaristia e la risurrezione, quasi che l’Eucaristia possa introdurci direttamente nella comunione «reale» con la risurrezione di Gesù, scavalcandone la morte. Nell’Eucaristia, il Signore risorto – in virtù dello Spirito – ci rende partecipi della sua autodonazione, ci pone in comunione con sé, nell’atto del suo consegnarsi sulla croce; la comunione con la croce di Cristo è, infatti, per noi passaggio obbligato e condizione imprescindibile per partecipare alla sua risurrezione gloriosa[18].
Da queste considerazioni deriva un criterio fondamentale per l’autenticità dell’adorazione: la presenza eucaristica non va considerata una realtà a sé stante, quasi dimenticando che si tratta del memoriale della Pasqua, da cui scaturisce la Chiesa. Il Cristo presente non è il «piccolo Gesù», bensì il Gesù della Pasqua. Vanno quindi risolutamente accantonate le presentazioni dell’ostia come realtà che «offre la presenza di Cristo “catturata” nelle specie del pane, quasi a farne il “divin prigioniero” custodito nel tabernacolo e in attesa di compagnia»[19]. Prospettive di questo tipo rischiano di presentare in maniera del tutto incongrua il Cristo eucaristico quasi fosse un «altro» rispetto al Gesù della storia[20]. E l’Eucaristia staccata dal Gesù storico – il Gesù della Pasqua – non può che diventare preda delle interpretazioni soggettive più arbitrarie, finendo per risolversi nell’alternativa di se stessa:
«Non riconoscendo l’Eucaristia nella sua funzione propria di “vincolo” all’esistenza storica di Gesù Cristo, si finisce per chiederle di “svincolarcene”. Invece di abbandonarci a lei per farci accompagnare docilmente a vivere e a morire con Gesù – quindi come Gesù –, le si chiede di guarirci dal male, di proteggerci dalle disgrazie, di salvarci dalla morte; in una parola, di concederci un’esistenza diversa da quella di Gesù»[21].
3. L’adorazione come distensione del mistero celebrato
Al credente che volge lo sguardo adorante al mistero è offerta l’opportunità di accostarsi ad esso, distendendo, personalizzando e prolungando quanto si è compiuto nel corso della celebrazione: si tratta dunque di stabilire un’autentica unio cordis con Cristo, riprendendo e approfondendo la partecipazione al mistero pasquale, realizzata grazie alla celebrazione e alla comunione sacramentale. In effetti, la partecipazione piena e reale alla Pasqua di Cristo si attua partecipando alla celebrazione eucaristica: partecipazione che trova la propria compiutezza – il proprio logico e naturale approdo – quando il fedele si accosta alla comunione sacramentale. Coerentemente, la comunione sacramentale con Cristo implica/comporta la comunione con la sua Pasqua.
La comunione eucaristica, pertanto, non va pensata come l’esperienza di una visita individuale del Signore («Gesù che viene nel mio cuore»), bensì come la condivisione della sua dedizione. In questa prospettiva, anche la comunione che si attua mediante l’adorazione non è semplicemente un intimo faccia a faccia fra il credente e Cristo, bensì un modo di prolungare la reale partecipazione al memoriale della sua passione, morte e risurrezione.
L’adorazione consente di dilatare lo spazio offerto al soggetto per lasciar risuonare dentro di sé i molteplici aspetti di questo mistero, secondo accenti, sollecitazioni e sottolineature diverse. Questo modo di rapportarsi al mistero ha le sue linee di forza nelle strutture portanti della celebrazione e, in particolare, della preghiera eucaristica: rendere grazie, offrire, intercedere. Riproponendo questi atteggiamenti, l’adorazione alimenta «le giuste disposizioni per celebrare con la devozione conveniente il memoriale del Signore» e ricevere frequentemente il pane eucaristico[22]; pertanto, non solo prolunga la celebrazione e la comunione sacramentale, ma ad esse riconduce. In effetti, l’unio cordis con Cristo che si realizza grazie all’adorazione «non può essere completa in se stessa dato che, per sua natura, tende alla comunione sacramentale ove attinge il suo culmine»[23].
3.1. Rendere grazie
Il rendimento di grazie è dimensione costitutiva della celebrazione eucaristica e, quindi, anche dell’adorazione[24]. Rendere grazie è l’atteggiamento che l’uomo assume di fronte a un dono, a qualcosa di gratuito, che egli percepisce come un bene per sé, benché non gli sia dovuto. Rendere grazie di fronte al Signore morto e risorto significa riconoscerlo come un bene per me, un bene che mi è dato pur senza essermi dovuto.
Qui nasce però la difficoltà: proprio perché Gesù Cristo è un bene eccedente e in qualche caso anche scomodo, in quanto giudica la vita e la mette in discussione, l’uomo ha difficoltà a riconoscere in lui un bene; a tratti, vi vede piuttosto una minaccia per la propria autonomia. Si tratta di una tentazione sottile, che può essere superata, nella prospettiva della fede, arrivando a riconoscere in Gesù Cristo colui che, pur eccedente, non è estraneo all’uomo, ma dell’umano rappresenta la verità: è l’umano vero che, essendo l’umano del Figlio di Dio, dice il senso assoluto dell’esistenza di ogni uomo. Il dono che è Gesù Cristo consente di ringraziare sempre, anche nelle circostanze dolorose e difficili della vita, perché ha in sé la chiave di soluzione di tutte le situazioni e offre una prospettiva nuova secondo cui guardare le cose:
«Se l’ultimo orizzonte della realtà non è un grande punto interrogativo, ma è un amore che mi fa il dono di Gesù Cristo e quindi fonda una speranza, allora la prospettiva con cui si guarda ogni cosa è profondamente diversa, non perché i momenti difficili diventino facili, ma perché si superano l’inquietudine e l’angoscia radicali»[25].
3.2. Offrire
Offrire è un gesto che mette in gioco il senso della libertà dell’uomo come un restituirsi a colui che è la sua sorgente. Il cammino della libertà umana è il cammino del restituirsi a Dio. Questo è pure il senso dell’offerta compiuta da Gesù Cristo: il Figlio riconosce la propria origine e a essa si restituisce: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». La celebrazione eucaristica è essenzialmente il consegnarsi del Signore nelle mani del Padre: grazie alla dinamica del memoriale, questo gesto, compiuto una volta per tutte, non si ripete, ma si fa presente, si dà qui e ora. In tal modo
«l’oblazione di Cristo diventa “forma” dell’oblazione viva della Chiesa, di quello che Paolo ha chiamato il “culto spirituale”, cioè quel modo di esistere della Chiesa che ricalca le strutture stesse dell’esistenza di Cristo: il suo consegnarsi, il suo affidarsi nell’ubbidienza al Padre che ha come contenuto il dono di sé nella carità»[26].
Nella celebrazione, la struttura dell’offrire ha il suo momento culminante quando restituiamo a Dio ciò che lui ci ha dato: non più soltanto il pane e il vino, ma il Cristo in quanto accolto da noi. Nel contempo anche noi ci offriamo a Dio, come una libertà che, prendendo i contorni di Cristo, realmente si restituisce a lui. In altri termini: nell’offerta che fa di se stesso a Dio grazie all’Eucaristia, il credente non imita l’offerta di Cristo, né la ripete, né aggiunge a essa una sua propria offerta.
Partecipando all’Eucaristia, il credente è sacramentalmente coinvolto nell’offerta di Cristo, nel suo atto di donazione; proprio tale coinvolgimento suscita e rende possibile l’offerta di noi stessi al Padre. L’Eucaristia, quindi, è sacrificio della Chiesa e dei credenti non come sacrificio diverso e «altro» rispetto al sacrificio di Cristo, ma come partecipazione al sacrificio di Cristo, che fonda per noi la possibilità di essere Chiesa, cioè umanità che «per lui, con lui e in lui» si offre al Padre[27].
3.3. Intercedere
La Chiesa che, mediante l’Eucaristia, partecipa al sacrificio del Signore entra perciò stesso nella sua preghiera d’intercessione al Padre:
«Le intercessioni della preghiera eucaristica sono la partecipazione della Chiesa all’intercessione perpetua del Cristo glorificato attraverso il suo sacrificio. Essendo il sacrificio che la Chiesa celebra il sacrificio di Cristo, la sua intercessione è l’intercessione di Cristo»[28].
Intercedere significa «volere con Dio le cose buone che Dio vuole per noi»[29]; significa, dunque, volere con Dio il dono di Cristo e della sua Pasqua per tutti: per la Chiesa, per il mondo, per i vivi, per i defunti, per i peccatori… Un volere il dono di Cristo per tutti che diventa disponibilità a lasciarsi coinvolgere a compiere ciò che è nelle nostre possibilità affinché effettivamente sia così. Se dunque il tempo disteso dell’adorazione consente all’orante di dare attenzione alla situazione personale che egli sta vivendo, l’intercessione impedisce che ciò si risolva in un intimistico ripiegamento su di sé.
«Ci apriamo all’amore di Dio e questo ci porta nella sua direzione, cioè verso i fratelli. E mentre ci lasciamo portare da questo movimento non veniamo allontanati dalla sorgente, ma, in un certo senso, torniamo a restituire quello che ci è stato dato. Non abbiamo altro modo di riamare Dio, se non quello di lasciarci portare nella stessa direzione della sua carità misericordiosa. Così ubbidiamo a lui, gli restituiamo la nostra libertà e ci restituiamo a lui»[30].
4. Conclusione
Se accostandosi alla comunione sacramentale il credente decide di assumere la forma del vivere di Cristo, l’adorazione si colloca nella medesima linea: non si tratta semplicemente di gustare la dolcezza di una presenza, bensì di porsi davanti a colui che ci interpella in rapporto alla forma della nostra esistenza. E come cristiani non possiamo avere una forma di esistenza diversa da quella che ci è presentata dall’Eucaristia: l’esistenza umana vissuta come l’ha vissuta Gesù Cristo, cioè vissuta per gli altri, abbandonata totalmente nella mani del Padre. Un’esistenza così «inevitabilmente, in un modo o nell’altro, finisce sempre sulla croce, o piuttosto con la risurrezione»[31].
Di tale risurrezione e della gloria che essa porta con sé l’Eucaristia è pegno, cioè anticipo e caparra; ma proprio in quanto pegno, l’Eucaristia ci ricorda che, per noi che siamo in questo mondo, tale gloria è ancora futura. È nella natura dell’Eucaristia un certo aspetto di «incompletezza», di aspettativa non ancora pienamente soddisfatta: ogni celebrazione «è un rinnovamento del desiderio che è espresso alla fine dell’Apocalisse – “Vieni Signore Gesù” – ed enfatizza il fatto che egli debba ancora venire e che i nostri desideri non siano ancora completamente soddisfatti»[32].
In questa linea, la preghiera davanti alla presenza sacramentale suscita il desiderio di contemplare faccia a faccia colui che ora vediamo sotto le specie del pane e del vino:
«L’acclamazione Maranà tha, “Vieni, Signore Gesù!», è ancora la supplica degli adoratori che sperano l’incontro definitivo, dove non esisterà più alcun velo per contemplare e adorare il Re della gloria»[33].
Jesu, quem velatum nunc aspicio,
Oro fiat illud quod tam sitio:
Ut te revelata cernens facie
Visu sim beatus tuae gloriae.



[1] «Le “propositiones” dell’XI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi (2-23 ottobre 2005)», in «Rivista Liturgica» 93 (2006) 307-327, p. 310: proposizione 6. Il testo qui riprodotto proviene dal fascicolo distribuito ai padri sinodali.
[2] Per limitarci agli interventi più recenti del magistero pontificio, ricordiamo Ioannes Paulus PP. II, Litterae encyclicae «Ecclesia de Eucharistia» de Eucharistia eiusque necessitudine cum Ecclesia, 17 aprilis 2003, in Acta Apostolicae Sedis [= AAS] 95 (2003) 433-475, no 25; Id., Epistula apostolica «Mane nobiscum Domine» de eucharistico anno, 7 octobris 2004, in AAS 97 (2005) 337-352, no 18.
[3] Punto di riferimento imprescindibile in proposito resta Sacra Congregatio Rituum, Instructio «Eucharisticum Mysterium» de cultu mysterii eucharistici, 25 maii 1967 [= EM], in AAS 59 (1967) 539-573; cf. in particolare la terza parte: De cultu Sanctissimae Eucharistiae prout est Sacramentum permanens, nno 49-67. Le indicazioni qui contenute trovano attuazione in De sacra communione et de cultu mysterii eucharistici extra Missam (= Rituale Romanum ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Pauli PP. VI promulgatum), Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, 1973 = Rito della comunione fuori della Messa e Culto eucaristico (= Rituale Romano riformato a norma dei Decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI), LEV, Roma 1979. Tra i commenti all’Istruzione e/o al Rito, cf. P. Visentin, Il culto eucaristico «extra Missam» nella dottrina e nelle norme dell’Istruzione, in Eucaristia. Memoriale del Signore e sacramento permanente, LDC, Leumann (To) 1967, pp. 104-126; G. Colombo, Il culto eucaristico nei documenti post-conciliari: lettura critica e prospettive teologico-pastorali, in «Rivista Liturgica» 67 (1980) 29-47; A. Cuva, Io sono il Pane vivo. Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, Edizioni Paoline, Roma 1984; R. Falsini, Il rinnovamento del culto eucaristico secondo il Concilio Vaticano II, in Id. (ed.), Eucaristia. Dalla celebrazione al culto eucaristico. A 30 anni dalla «Eucharisticum mysterium», OR, Milano 1997, pp. 56-78.
[4] G. Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, Glossa, Milano 20022. Si tratta di un corso di esercizi spirituali che l’autore ha proposto nell’agosto 1983 all’Istituto Secolare «Figlie della Regina degli Apostoli» [= FRA] e che viene qui pubblicato, scorporandolo dal volume G. Moioli, Il salvatore divino, Edizioni Viboldone, Viboldone 1985.
[5] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 42.
[6] Cf. L. Girardi, «Del vedere l’ostia...» La visione come forma di partecipazione, in «Rivista Liturgica» 87 (2000) 449-458. Sull’evoluzione storica del culto extra missam – oltre ai testi citati in Ibid., p. 452, n. 6 – cf. E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au Saint-Sacrement, Beauchesne, Paris 1926; E. Bertaud, Dévotion eucharistique. Esquisse historique, in Dictionnaire de spiritualité, Beauchesne, Paris 1961, t. IV/II, coll. 1621-1637; R. Falsini, La prassi eucaristica al di fuori della messa nella Chiesa occidentale, in «Rivista Liturgica» 67 (1980) 9-28.
[7] Girardi, «Del vedere l’ostia...», cit., p. 454.
[8] Ivi.
[9] Il riferimento è al celebre inno Adoro te devote, «il pezzo più bello della poesia tomistica, di cui le ricerche di oggi assicurano l’autenticità con prove definitivamente convincenti»: C. Marabelli, Tommaso d’Aquino poeta eucaristico, in Facoltà Teologica Italia Settentrionale (ed.) L’intelletto cristiano. Studi in onore di mons. Giuseppe Colombo per l’LXXX compleanno, Glossa, Milano 2004, pp. 473-491: p. 488. Una libera traduzione dell’Adoro te devote si trova in Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 123 (testo latino a fronte): a essa mi sono riferito, laddove cito frasi dell’inno con la rispettiva traduzione.
[10] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 94.
[11] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 14. È qui in gioco l’intrinseco rapporto tra la verità e la libertà dell’uomo: la verità si propone a noi sempre come il senso autentico della vita e delle cose, senso che non possiamo far nostro se non scegliendolo. La verità pertanto implica sempre un appello alla libertà e mette in gioco una decisione, una scelta. La libertà, da parte sua, non inventa la verità, non la pone in essere creativamente, ma la riconosce come tale, aderisce ad essa, si decide per essa con un atteggiamento che coinvolge tutta la persona: decido che la verità sia una verità per me, scelgo di stare dalla parte della verità, ad essa «sottometto il cuore».
[12] Cf. J.-L. Marion, Réaliser la présence réelle, in L’Eucharistie. Tradition, célébration, adoration, Cerf, Paris 2005, pp. 207-216. Sul ruolo che l’eucaristia occupa nel pensiero di Marion, cf. N. Reali, Fino all’abbandono. L’eucaristia nella fenomenologia di Jean-Luc Marion, Città Nuova, Roma 2001.
[13] Girardi, «Del vedere l’ostia...», cit., p. 455. «La visione dell’ostia si può considerare come un’autentica modalità di partecipazione al mistero eucaristico [...]. Tuttavia questa partecipazione visiva avviene a condizione che lo sguardo sappia connettere l’ostia con l’insieme delle dimensioni del mistero eucaristico celebrato e si inserisca dentro il dinamismo sacramentale di cui l’ostia stessa è parte»: Ibid., pp. 457-458. «Solo una visione completa e organica del mistero eucaristico può giustificare e orientare […] la prassi devozionale “extra Missam”»: Falsini, La prassi eucaristica, cit., p. 25.
[14] Girardi, «Del vedere l’ostia...», cit., p. 455.
[15] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 15. «Ce qu’il faut proposer à l’adoration, c’est tout le mystère pascal, qui est le contenu de l’action eucharistique que Jésus demande à ses disciples de faire en mémoire de lui. L’adoration offre un moment d’arrêt, d’émerveillement et d’admiration de tout ce que contient l’eucharistie»: P. de Clerck, Adoration eucharistique et vigilance théologique, in «La Maison-Dieu» 225 (2001) 65-79, p. 78.
[16] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 16. Per un quadro sintetico delle vicende che hanno portato alla riscoperta della categoria di memoriale, cf. B. Neunheuser (A.M. Triacca), Memoriale, in D. Sartore - A.M. Triacca - C. Cibien (edd.), Liturgia, San Paolo, Cinisello B. 2001, pp. 1163-1180.
[17] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 17. Continua Moioli: «La Chiesa non ripete Gesù Cristo, ma lo rivive. L’imitazione di Gesù non può mai essere letterale, non solo perché Gesù è inconfrontabile, ma perché non è possibile letteralmente identificarsi con lui; è possibile soltanto proporzionalmente, cioè portando nella propria esistenza concreta le linee, le strutture dell’esistenza stessa del Signore».
[18] «Con il mistero eucaristico, Cristo risorto ci raggiunge, ma attraverso l’atto dal quale scaturirà per lui come per noi la risurrezione, cioè l’atto stesso del suo dono totale sulla croce»: L. Coté, L’Eucaristia del popolo di Dio. Riflessioni sul mistero eucaristico, Edizioni Paoline, Cinisello B. 1993, p. 142. Cf. A. Caprioli, Eucaristia e risurrezione. Attualità di un saggio teologico di Giuseppe Colombo, in Facoltà Teologica Italia Settentrionale (ed.) L’intelletto cristiano, cit., pp. 493-509.
[19] Girardi, «Del vedere l’ostia...», cit., p. 455.
[20] L’operazione non è assolutamente pertinente, perché Gesù Cristo «non ha una vita eucaristica diversa […] da quella che fu la sua vita storica in Palestina e che è attualmente la sua vita gloriosa alla destra del Padre. Non avere una vita eucaristica diversa dalla sua vita storico-gloriosa significa propriamente che non si può attribuirgli orecchi eucaristici per ascoltare le nostre preghiere davanti al tabernacolo o un cuore eucaristico per accoglierci con misericordia. Gli orecchi, il cuore, come tutto il corpo di Gesù, come la sua persona, tutto è uno solo! L’Eucaristia non lo raddoppia, lo rende semplicemente presente, lì nel tabernacolo, in modo eucaristico o sacramentale […]. Contemplare l’Eucaristia, meditare l’Eucaristia può significare solo riandare alla storia di Gesù, cioè al suo modo di vivere l’esistenza umana […]. Emerge qui il senso e il valore dello stare davanti al tabernacolo, cioè dell’adorazione al SS. Sacramento. L’intenzionalità oggettiva non può essere quella di istituire una relazione col Gesù del SS. Sacramento immaginato diverso dal Gesù storico: questa è pura fantasia, perché non esiste un Gesù del SS. Sacramento diverso dal Gesù storico. Conseguentemente, l’intenzionalità oggettiva può essere solo quella di realizzare la comunione di vita con Gesù Cristo»: G. Colombo, Eucaristia e preghiera, pro manuscripto, Venegono Inferiore 1991, pp. 5-6.
[21] G. Colombo, L’esistenza cristiana, Glossa, Milano 1999, p. 18. «Staccare il culto […] verso l’Eucaristia dall’insieme costituito dagli eventi salvifici compiuti dal Cristo “in diebus carnis suae” […] significa trasformarlo in un culto in cui l’adorazione non è “risposta” all’iniziativa divina quale si manifesta nel mistero eucaristico, ma espressione di una fede che si costruisce e si alimenta da sola»: A. Pistoia, Adorazione, riparazione, espiazione, benedizione: significati e contenuti, in «Rivista Liturgica» 67 (1980) 48-62: p. 52.
[22] EM, no 50.
[23] E. Mazza - R. Falsini, Il silenzio nell’adorazione eucaristica, in «Rivista Liturgica» 76 (1989) 413-428: p. 415. Mazza spiega così il fatto che il Rituale De sacra communione no 82 corregga EM no 60, indicando come frutto dell’esposizione eucaristica non una communio cordis con Cristo (come afferma appunto l’Istruzione), bensì una unio cordis, «quae in communione sacramentali culmen attingit». In effetti, «ogni ostia consacrata è fatta per essere mangiata […] e solo allora essa comunicherà tutti quei frutti che sono divinamente connessi dalla stessa istituzione alla manducazione sacramentale come partecipazione autentica del sacrificio»: P. Visentin, Il culto eucaristico, cit., p. 119.
[24] Il rilievo della preghiera di ringraziamento come «forma fondamentale» (Gestalt) del rito eucaristico è affermato in particolare da J. Ratzinger, Forma e contenuto della celebrazione eucaristica, in Id., La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Jaca Book, Milano 19902, pp. 33-48. Per un quadro del dibattito, cf. L. Lies, La «forme» théologique de l’eucharistie, in «La Maison-Dieu» 232 (2002) 75-96.
[25] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 36.
[26] Ibid., p. 75.
[27] «Il cristiano non si offre al Padre con un’offerta “parallela” a quella di Cristo, o con una soltanto simile, ma veramente nella sua e attraverso la sua (“in lui e con lui”), quella avvenuta appunto “una volta per tutte”»: A. Bozzolo, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede, LEV, Città del Vaticano 2003, p. 230.
[28] R. Kaczynski, Die Interzessionen im Hochgebet, in Th. Maas-Ewerd - Kl. Richter (Hgg), Gemeinde im Herrenmahl. Zur Praxis der Meßfeier, Benziger-Herder, Einsiedeln-Freiburg 1976, pp. 303-313: p. 309, cit. in J. Hermans, La celebrazione dell’Eucaristia. Per una comprensione teologico-pastorale della messa secondo il Messale Romano, LDC, Leumann (To) 1985, p. 341, n. 123.
[29] Moioli, Il mistero dell’Eucaristia, cit., p. 39.
[30] Ibid., p. 40.
[31] G. Colombo, L’ordine cristiano, Glossa, Milano 1993, p. 34.
[32] C.M. Martini, La disillusione dell’Eucaristia, in P. Sartor, Martini: l’avventura del predicare. Con una scelta di omelie inedite tenute dal Cardinale a Gerusalemme, Centro Ambrosiano, Milano 2005, pp. 21-22: p. 21.
[33] J.M. Canals, Pregare davanti all’eucaristia, in M. Brouard (ed.), Eucharistia. Enciclopedia dell’Eucaristia, EDB, Bologna 2004, pp. 735-743: p. 736.

Pierpaolo Caspani
Revista liturgica
n°6  nov/dic 2007

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