Ogni opera d’arte, dunque, intrattiene un peculiare
legame con la realtà; tanto più un’arte che voglia essere esplicitamente
religiosa, o, ancor più, sacra, non può prescindere né dal vedere —cadendo in
un simbolismo, questo sì astratto nel senso deteriore del termine—, né dal
pensare —cadendo viceversa nel puro segno materiale, parimenti astratto.
Nell’arte contemporanea, è infatti possibile rintracciare la traccia di due
tradizioni: una che può essere definita “materica”, ovvero che cerca di
rappresentare le stesse realtà trascendenti negandole nella pura immanenza del
segno sulla materia; l’altra, invece, che viceversa cerca di esprimere una sorta
di spiritualità, allontanandosi dalla materia, fino a una sua negazione
apparente, nella ricerca di una, in sé contraddittoria, invedibilità dell’opera
d’arte. Quest’ultima tradizione, per certi versi più forte rispetto alla prima,
conduce l’arte verso un paradosso che la allontana dalla possibilità di
parlare.
L’arte, a motivo del suo complesso rapporto con la
realtà, e per la peculiarità del proprio fare, intrattiene un rapporto
privilegiato con Dio, tanto che, è stato detto, ogni arte è in sé religiosa[1]. L’origine
dell’operare artistico viene dunque cercato nel “naturale” senso religioso
dell’uomo, ma, entro questo contesto, occorre operare dei discernimenti.
Giudaismo e islamismo intrattengono, infatti, un
rapporto molto particolare con l’arte, e in particolare con le “immagini”,
esprimendo ripetutamente, nel corso della loro storia, una decisa tendenza
iconoclasta. Il divieto veterotestamentario alle immagini di Dio, che è alla
base dell’aniconismo giudaico e islamico, coinvolge in qualche modo lo stesso
Cristianesimo. Come ha notato la Gallo: “Il nucleo essenziale del problema
dell’immagine nel culto cristiano sta tra questi due poli: da una parte
l’assoluta trascendenza di Dio a qualunque immagine fatta dalla mano dell’uomo,
affermata con tanto vigore nell’Antico Testamento e mai smentita dal Nuovo, e
dall’altra l’esistenza di fatto dell’immagine, attestata dovunque e in
qualunque tempo si sia data vita cristiana, sia pure con alterne vicende di
dignità, o di decadenza, di splendore, o di pura sopravvivenza, di adeguatezza
al suo concetto o di deplorevole banalizzazione, per non dir peggio”[2].
In verità, nel primo millennio dell’arte cristiana
il divieto veterotestamentario ha agito come “grandissima cautela riguardo ogni
raffigurazione di Dio Padre o della Trinità” e come “mancanza pressoché totale
di statuaria a tutto tondo” [3].
Ma, comunque, un’arte sacra cristiana esiste ed è
sempre esistita, e il suo fondamento, la sua irriducibile particolarità,
risiede in Cristo. L’Incarnazione di Dio Figlio ha sconvolto la storia
dell’uomo e anche la storia dell’arte. Se l’uomo pre–cristiano o non–cristiano
può comunque trovare delle ottime ragioni per glorificare Dio attraverso la
riproposizione artistica della bellezza del Creato, tanto più l’uomo cristiano non
può che gioire di fronte alla possibilità di poter ritrarre Cristo, la Madonna e i Santi. Questa possibilità,
percepita come eccezionale fin dall’inizio —si consideri al proposito “il
fiorire in tutte le Chiese di numerose storie e leggende sul vero ritratto del
Signore[4] e della sua
Santissima Madre”[5]—si radica, a mio
avviso, soprattutto nelle parole di Cristo risorto: “Guardate le mie mani e i
miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e
ossa come vedete che io ho”[6]. All’artista cristiano è dunque chiesta non
un’arte che finga fantasmi, ma un’arte che rappresenti corpi reali di carne e ossa.
L’artista cristiano è dunque legittimato –di più:
chiamato–, a rappresentare Dio,
perché Dio si è incarnato. Sull’incarnazione si fonda la stessa possibilità di
rappresentare la Trinità, a partire dal volto della seconda persona, perché
“Chi vede me, vede il Padre”[7], “Egli è l’immagine
del Dio invisibile”[8].
Torniamo adesso ai documenti conciliari. Nel
messaggio agli artisti è detto: “Voi [gli artisti] l’avete aiutata [la Chiesa]
a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e delle figure, a
rendere avvertibile il mondo invisibile”.
Mi sembra che in questo passaggio si tocchi il cuore
dell’arte sacra.
Se l’arte, ogni arte, informa la materia, esprime
l’universale mediante il particolare, l’arte sacra, l’arte al servizio della
Chiesa, compie anche la sublime mediazione tra l’invisibile e il visibile, tra
il divino messaggio e il linguaggio artistico. All’artista è chiesto di dare
forma a una materia ri–creando addirittura quel mondo invisibile ma reale che è
la suprema speranza dell’uomo.
Il Filarete (A. Averlino) nel suo Trattato di architettura (1451-1464)
sottolinea come la pittura abbia la capacità di andare oltre le leggi di
natura, rappresentando per esempio delle rose in gennaio. Io direi di più:
all’artista è consentito di presentare oggi il Cristo appena nato, di
rappresentarlo morto e poi risorto, proponendo, con le possibilità poietiche e
mimetiche dell’arte, realtà altrimenti
non normalmente percepibili[9].
La spiritualità cristiana non può mai prescindere da
tale concretezza. Ciascuno può, o deve, rappresentare in sé il volto di Cristo:
il vedere e il rappresentare sono, dunque, strumenti di “crescita spirituale”.
Ricordiamo, per esempio, come alla base dell’operare
artistico del Beato Angelico nei monasteri domenicani, ci fosse una precisa
teologia della visione elaborata da S. Antonino. Questi accetta il monaco
pittore nel convento perché è convinto che con la sua arte potrà ripresentare
agli occhi del fedele la bellezza di Gesù.
S. Antonino sottolinea che la “porta degli occhi” è
la “porta di Gerusalemme” attraverso la quale “intrat Iesus per sensu spirituales, scilicet visum contemplationis”[10]: “In questo ‘introito’
di Cristo nell’anima attraverso la visione;
in questa funzione-della-visione di ‘via alla contemplazione’ è da
ricercare una delle ragioni, ma tra le principali, che
aveva indotto fra Antonino ‘maestro e priore’, ed i frati fiesolani, ad accettare
Guido-dipintore quale frate-Predicatore e a consentirgli di
‘arricchire’ con le sue pitture ed affreschi i conventi di ‘osservanza’ (che
dovevano essere ‘poveri’) di San Domenico di Fiesole e di San Marco. Infatti
dalle ‘pitture’, che la mano di fra Giovanni stendeva sulle tavole o sul muro,
partivano ‘raggi’ (avrebbe detto fra Antonino) e stimoli che attraverso l’occhio, sensibile e intelligibile,
provocavano la memoria a ‘recogitare
li beneficii e doni ricevuti da Dio’, muovevano alla ‘speculatio gustativa’,
perché l’affetto ama ciò che capisce
e vede: le immagini-visive di fra Giovanni riuscivano dunque di sostegno all’obbligo morale del frate domenicano
di ‘contemplare’ e rientravano nell’organizzazione della vita conventuale”[11].
L’arte cristiana è dunque profondamente
responsabilizzata dalla realtà dell’Incarnazione, che redime lo stesso vedere,
elevandolo alle vette della vita spirituale.
L’Incarnazione cancella definitivamente ogni
condanna “platonica” (o presunta tale) alla mimesi artistica, perché l’arte
cristiana serve una Verità che vive nel mondo, trascendendolo.
Mi sembra che tale servizio imponga all’artista una
sorta di amore verso la realtà visibile, sì da non volerla mai perdere o
annullare.
Tutto ciò mi sembra conduca verso una affermazione
dell’arte figurativa —ovvero un’arte che si impegna a “figurare” la realtà— quale massimo
strumento di servizio, quale migliore possibilità di un’arte sacra.
Torniamo dunque all’immagine sacra che, come ho
premesso, è a mio avviso una sorta di paradigma dell’arte sacra stessa.
L’artista che voglia servire Dio nella Chiesa, non può che misurarsi con l’
“immagine” la quale rende avvertibile il mondo invisibile.
Scrive la Gallo: “come l’annuncio dei misteri di Dio
per mezzo della parola sarà un annuncio di eventi compiutisi nel tempo e nello
spazio creato e tuttavia divinamente trascendenti e trasfiguranti, così
l’annuncio dei medesimi eventi nella forma figurativa dovrà a un tempo essere
realistico e insieme esprimere una realtà terrestre trasfigurata
dall’immissione in essa delle energie divine. Analogamente per i ritratti o i
volti dei santi. Essi dovranno certamente aderire al loro modello; ma il santo
non è più soltanto uomo, è un uomo in cui si è pienamente realizzato il mistero
battesimale della sua conformazione a Cristo”[12] . All’artista
cristiano è dunque chiesto un particolare impegno: quello di rappresentare la
realtà creata e attraverso essa e in essa quell’“oltre” che la spiega, la
fonda, la redime.
Non dunque un iperrealismo ossessionato da un sempre
sfuggente particolare, ma un sano realismo che nel corpo delle cose e nel volto
degli uomini sa leggere e alludere, e riconoscere la presenza di Dio.
L’arte figurativa non deve neanche temere come
inattuale la “narrazione”, l’arte è sempre narrativa, tanto più quando si pone
al servizio di una storia avvenuta, in un tempo e in uno spazio. Per la
particolarità del compito, all’artista è chiesto anche di sapere “cosa
narrare”: conoscenza evangelica, competenza teologica. D’altra parte, la teologia
stessa tende a farsi sempre più narrativa.
Ricordiamo che molta trattatistica artistica del
‘600[13], affiancava il
teologo al pittore, nella necessità che il pittore sapesse “cosa” narrare. Come ha ricordato recentemente
il Pontefice, le opere d’arte “costituiscono anch’esse un formidabile strumento
di catechesi”[14].
L’opera d’arte sacra, dunque, costituisce uno
strumento di catechesi, di meditazione, di preghiera, essendo destinata “al
culto cattolico, all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei
fedeli”[15]; gli artisti, come
ricorda il più volte citato messaggio della Chiesa agli artisti, hanno
“edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua
liturgia” e devono continuare a farlo.
di Rodolfo Papa
[1] Lo stesso Babolin:
“possiamo affermare che il mondo dell’arte, poco o tanto, ha sempre a che fare
con la religione” Babolin, Op. cit., pag. 77.
[2] “Questa polarità spiega i
contrasti, spesso violenti, talora fino all’effusione del sangue, che hanno
sempre accompagnato il dibattito pro o contro l’immagine, dentro la Chiesa, o
in confronto con i credenti del giudaismo (e dell’Islam) che attingono alla
medesima fonte veterotestamentaria” M.
Gallo, Per una lettura cristiana
dell’immagine, Guaraldi, Rimini 1992, pp. 8-11.
[3] Quest’ultimo aspetto perché
“per molti secoli, si stabilì l’equazione per cui avere statue corrispondeva a
ricadere nell’idolatria, a comportarsi da pagani e ad accogliere forze nemiche
di Cristo” F. Boespflug, Il Dio di Mosè e il Dio di Michelangelo.
Dalla proibizione biblica di ogni raffigurazione plastica di Dio alla figura di
Dio nell’arte del Rinascimento e della Riforma cattolica, in
“Humanitas”, LI (1996) 5-6, pag. 817.
[4] Nella liturgia delle Chiese
d’Oriente il 16 agosto si celebra la festa del vero ritratto del Signore.
[9] Prescindo in questo contesto
dalla possibilità di apparizioni, che pure interessano a mio avviso anche
l’arte. Talune descrizioni delle apparizioni della Madonna possono fondare, e
hanno fondato, una nuova iconologia mariana. Per una sommaria storia delle
apparizioni della Madonna, cfr. G.
Hierzenberger, O. Nedomansky, Tutte
le apparizioni della Madonna in 2000 anni di storia, Piemme, Casale
Monferrato 1996.
[10] Antoninus, Summa
moralis, in S. Antonini opera omnia,
a cura di T.M. Mamachi e D. Remedelli, Firenze 1741, pars I, tit. II, cap. III, par. III, col. 170.
[11] E. Marino, Beato
Angelico. Umanesimo e Teologia, edizione Memorie Domenicane, Roma 1984,
pag. 35. Le frasi di S. Antonino, contenute nel brano citato, sono tratte da Opera a ben vivere, Firenze 1923, pag.
21, e da
Summa moralis, cit., pars I, tit. III,
cap. II, par. I,
col, 233.
Anche
il Cenacolo di Leonardo nel Convento
domenicano di S. Maria delle Grazie a Milano, a mio avviso, va letto entro
questa prospettiva, come ho cercato di argomentare nel mio articolo Il Cenacolo di Leonardo. Una
rappresentazione interiore, in “Art e Dossier”, (1996) 119, pp. 27-30.
[13] Cfr. per esempio G.
Domenico Ottonelli e P. da Cortona, Trattato
della pittura, e scultura, uso, et abuso loro, composto da un theologo, e da un
pittore, Firenze 1652 (ristampa anastatica a cura di V. Casale, Libreria
Editrice Canova, Treviso 1973).
[14] Questo nel 1991, in
occasione di una visita ad limina dei
vescovi della Toscana, ai quali chiese “di rilanciare il messaggio universale
della bellezza e della bontà, un tempo facilmente comprensibile a tutti”. Cfr.
al proposito, T. Verdon, Attirerò tutti a me, in “Il Regno”,
(1997) 789, pp. 133-135. La nota pastorale della Conferenza Episcopale Toscana
dedicata proprio al rapporto tra arte e fede è stata pubblicata con il titolo La Vita si è fatta visibile. La
comunicazione della fede attraverso l’arte, Edizioni Cooperativa Firenze 2000, Firenze
1997.
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