Quello che i Vescovi hanno detto alla Chiesa italiana, raccomandando
una liturgia «seria, semplice e bella», è riassumibile in due parole: la solennità della semplicità. Proseguendo nelle nostre chiacchierate sul celebrare,
vogliamo dare uno sguardo a ciò che fa da sfondo - per così dire - e da
sostegno alle parole e ai gesti, che delle celebrazioni liturgiche
costituiscono il fondamento: il “verbale” non può fare ameno del “non verbale”,
in una solenne semplicità o, se si preferisce, in una solennità semplice. Tanto
ci sarebbe da dire sul luogo, sull’arredo ed
anche sull’abito nella liturgia: ben altro e ben meglio c’è da esporre
su questi ‘segni’ e su questi temi; qui ci limitiamo al «qualcosa» su un
insieme di elementi che, ordinati e coordinati con arte (anche questo fa parte
dell’arte del celebrare) siano in grado di ‘dire’ e di ‘veicolare’ il Mistero
celebrato.
♦ Un
luogo per “comunicare”
1 - Il primo
luogo della celebrazione liturgica è l’altare:
la tavola della cena del Signore, dove è reso presente sacramentalmente il suo
sacrificio. Anche il suo simbolismo cristologico (icona
di Cristo sacerdote, vittima, pastore) ne domanda la collocazione e la cura che
dicano al meglio la sua centralità, tale da richiamare subito l’attenzione
dell’assemblea, lo sguardo di chi entra in chiesa oltre che il cuore dei
partecipanti all’azione sacra. L’altare deve essere connotato dalla luminosità (anche al di fuori delle
celebrazioni) e dalla essenzialità (dal
suo ordine). Attorno, e sopra, non devono essere collocati oggetti che in
qualche modo lo ‘nascondino’ o lo rendano un ‘porta-oggetti’. Il celebrante sta
all’altare solamente dalla presentazione dei doni alla comunione. Solo ciò che
serve all’Eucaristia vi sia deposto dal momento in cui vengono portati il pane
e il vino. I candelabri, se lo spazio lo permette, è meglio che siano non sopra
ma accanto all’altare.
2 - Il celebrante presiede l’assemblea dalla sede, eccetto quando proclama il
vangelo (o, nel rito ambrosiano, quando annuncia dall’altare la risurrezione
nella Veglia pasquale e nella Messa vigiliare) oppure quando all’ambone tiene
l’omelia e durante la liturgia eucaristica. Occorre che la sede sia ben visibile e che permetta al
presidente di porsi agevolmente in relazione con i fedeli attraverso i
gesti e lo sguardo. Se la custodia dell’Eucaristia è al centro del presbiterio,
come in molte chiese di vecchia costruzione,
la sede non costringa il celebrante a volgere le spalle al tabernacolo, a meno
che questo sia in posizione elevata. Il leggio con il microfono richiede scelte
sobrie e funzionali; non di rado la sede è ingombrata da leggii sproporzionati (troppo
grandi o esigui) e da microfoni mal collocati.
3 - Le scelte e
la premura nel costruire, nel posizionare e nell’‘allestire’ l’ambone dicono l’importanza della Parola di Dio. Questo luogo liturgico
già di per se stesso deve attrarre l’attenzione e invogliare l’ascolto
dell’assemblea. Vi sia la comodità di accedervi - anche processionalmente - e
di collocarvi il Lezionario; potrà
essere corredato da una breve frase incisiva (fissa o mutevole) che ‘chiami’
alla Parola, e ricoperto da un velo con il colore del tempo liturgico. Essendo
posto normalmente l’ambone abbastanza
vicino all’altare, non conviene mirare alla solennità monumentale propria di
celebri pulpiti di altrettanto celebri cattedrali o basiliche: esso non deve
fare da contro-altare al luogo principale della celebrazione (appunto, l’altare);
si faccia opportunamente uso invece, almeno in particolari feste e ricorrenze,
dei pulpiti esistenti nelle chiese ‘tradizionali’. Oltre ad annunciare la
Parola di Dio, all’ambone si tiene l’omelia, si propone la preghiera universale
e si canta il solenne “Exultet” all’inizio della Vegli pasquale; dall’ambone null’altro,
a meno di ‘annunci’ straordinari, o di preghiere e riflessioni al di fuori
della celebrazione eucaristica.
4 - Abbiamo già
detto della importanza e della necessità della guida del canto (o della voce-guida). Per chi anima il canto
dell’assemblea potrà essere utile un leggio,
sul presbiterio stesso (magari dalla parte opposta dell’ambone) o comunque in
una posizione visibile dall’assemblea.
Il leggio non è indispensabile: si può ‘dirigere’ con una mano mentre l’altra
tiene eventualmente un libretto, un foglio o uno spartito.
Altare,
sede, ambone, luogo dell’animazione diano comodo spazio al comunicarsi di Dio e
al comunicare con Dio, in maniera bella ed eloquente: una scala di Giacobbe per
il discendere, per il salire, per essere e per vivere «nell’unità dello Spirito
santo».
♦ Un
arredo per “partecipare”
‘Arredare’ una chiesa non è soltanto impegno rivolto
al che cosa collocare, ma soprattutto
al perché e al come disporre oggetti, scelti e distribuiti con un criterio che non
prescinda dalla celebrazione della liturgia in specie e dalla preghiera in
genere. Dipinti, statue, fiori, ecc. sono - e nell’intenzione devono essere -
qualcosa di più che ‘ornamenti’. Se fossero unicamente tali, rischiano perfino
di opprimere il luogo delle celebrazioni liturgiche e di costituire soltanto
una ‘attrattiva’ e una ‘dis-trazione’. Di esempi negativi (benché, magari,
positivi per l’arte in se stessa) ne abbiamo in tante chiese grandi e piccole.
L’arte della celebrazione, anche qui e di riflesso, ha le sue rigorose esigenze
per il degno servizio di Dio e della sua «gente santa».
1 - Le icone.
Usiamo questo termine in senso improprio o allargato, intendendo riferirci
generalmente ai dipinti e alle sculture che popolano dovunque le chiese. Non
sono rare le volte che, appena varcata la soglia di una chiesa, si ha
l’impressione di una ‘sovrappopolazione’ di
statue, di quadri (con l’aggiunta di ‘oggetti’ vari), anche mal messi e
mal distribuiti, con relativi porta-candele sempre più artificiali. Occorre un limite (una ‘semplicità’) che favorisca
ordinatamente la preghiera individuale e la devozione popolare, ma che non
ostacoli o depauperi la preghiera liturgica, nel suo svolgimento e nella
partecipazione dei fedeli. Che dire, poi, della presenza di più statue e
dipinti della Madonna o di Santi variamente disposti qua e là? In una chiesa parrocchiale
mi è parsa felice la soluzione di dedicare una cappella con un’unica immagine
di Maria e un’altra dedicata ad alcuni Santi.
2 - Benché in
una chiesa l’assenza di fiori non debba
apparire cosa del tutto sconveniente (ricordo invece dei poveri ramoscelli
secchi presso l’altare, a richiamare simbolicamente il tempo quaresimale!), la
loro presenza fa parte di una bellezza offerta
e gratificante. Il primo significato è una specie di rappresentanza di tutta la
creazione che viene associata alla lode di Dio: squisito linguaggio non
verbale. Purché e fiori e piante e vasi non intralcino l’accesso all’altare,
all’ambone, alla sede (o peggio, non li nascondano), e non ingombrino i
movimenti e la visuale dei fedeli. La giusta misura e la moderazione - il
semplice buon gusto - si oppongono a ‘giardini multicolori’, a ‘viali
alberati’, talvolta a ‘mini-foreste’ in cui immergere presbiterio e navata
(specialmente in occasione delle celebrazioni nuziali). L’omaggio deve essere
rivolto anzitutto a Dio, poi all’intero suo popolo, e non solo a due sposi o a
un gruppo di persone autocelebrantisi. Qualcuno ha scritto: «Troppi fiori
uccidono i fiori!», poiché ne fanno scadere la funzione di abbellimento e
infastidiscono l’assemblea. C’è un’“arte floreale” che deve coniugarsi con
l’“arte celebrativa”: fa bene tenerne conto e affidarsi magari a qualche
esperto. I fioristi potrebbero non solo offrire la loro merce, ma indicare
anche una certa distribuzione stagionale di fiori e di verde - per quanto
possibile - caratterizzando i diversi periodi liturgici dell’anno. Alla
bellezza dei colori si aggiungerebbe (perché no?) il profumo proprio del tempo
e del tempio; l’uso dell’incenso può insegnare qualcosa.
3 - A proposito
di scritte, di pannelli e di cartelloni.
L’“Ordinamento generale del Messale” non ne fa cenno, ma si è constatato e si
vede quanto, dal Concilio Vaticano II, si sia diffusa l’usanza di utilizzare
‘sussidi’ vari (cartacei, ed ora sempre più mediatici - fino ad una specie di
karaoke religioso!), per evidenziare passi biblici, tempi liturgici, temi
catechetici, impegni pastorali, circostanze particolari. Non sempre
inopportunamente, a dire il vero, ed anzi con proposte apprezzabili. È
necessario, però, che questi oggetti abbiano una buona qualità artistica e siano discreti nella loro funzione propositiva.
È sconsigliabile che vengano posti sul presbiterio; di preferenza siano
collocati o su colonne (su pareti laterali) o all’ingresso della chiesa,
evitando un sovraccarico già menzionato. Affinché si possa cogliere meglio il
senso dell’altare e dell’ambone, non è opportuno che essi siano trasformati in
supporti di scritte, di decorazioni e di quantaltro. Questo vale anche nei
confronti dei più piccoli, dei più giovani, e di quanto essi, guidati da
genitori e catechisti, sanno produrre anche di propria iniziativa. Ben
collocati in luogo adatto questi ‘segni’ dicano un percorso e un fine: la
meta è Lui e l’incontro è con Lui, il Signore, che viene ed è accolto nelle
celebrazioni liturgiche.
♦ Un
abito per “presentarsi”
Il valore e l’esigenza del segno o del simbolo si
estende anche al vestito: si pensi, per esempio, all’abito ‘festivo’ dei fedeli
che partecipano alla Messa domenicale (il Giorno del Signore non è la ‘festa’
del e col Risorto?); o all’abito ‘non feriale’ dei familiari e degli amici ad
una celebrazione funebre (indice di rispetto reciproco e di fede nella ‘festa
al di là’). Ma la liturgia chiede un abito
simbolico particolare a chi è chiamato a presiedere la celebrazione e a coloro
che la presidenza condividono in qualche modo con i propri ministeri liturgici.
Anche davanti a Dio, come davanti agli uomini, specialmente quando sono
convocati da Dio, un abito per “presentarsi” e un abito “presentabile” è di
buona regola e di relazione corretta.
Possiamo
parlare di un “abito di funzione”, in quanto esso significa che colui che lo
indossa è ‘investito’ di un compito speciale e che non agisce come persona
privata - pensiamo al medico in ospedale, al magistrato in tribunale - ma in nome
di un’autorità che lo delega affidandogli un servizio: nelle azioni liturgiche,
Dio stesso e la Chiesa. Ma c’è un’altra ragione che giustifica e reclama degli
abiti particolari nella liturgia: varcare la soglia della chiesa, entrare in
una celebrazione, significa “distaccarsi” dalle cose e dalle azioni ‘ordinarie’
per avvicinare la ‘straordinarietà’ dei misteri di Dio. La “separazione” è un
requisito liturgico, una specie di “segregazione” che in alcuni è operata da
Dio stesso con l’ordine sacro (S. Paolo si presenta come «segregato per il
vangelo di Dio» - Rm 1, 1). Un abito proprio indica questa separazione-segregazione,
pur non ignorando (anzi, rafforzando) la comunione con tutti. Dopo il Concilio
Vaticano II si è fatto correre il detto:
«Non è l’abito che fa il monaco» (perché certe distinzioni nel vestito fra
clero e laici?). Ma si potrebbe dire alla pari: «L’abito fa il monaco» (l’aiuta
ad esserlo); come «La liturgia fa l’abito del celebrante»: lo richiede, e lo
aiuta a comportarsi da ‘celebrante’. Certamente: un abito che non scada né in
una solennità esuberante (vada il termine ‘barocca’), né in una semplificazione
(al limite del ridicolo), e neppure in una sciatta trascuratezza (nel
portarlo). Il buon impiego dell’abito liturgico è segno di fede nel Sacro - nel
Dio tre volte Santo - e di arte celebrativa, senza ritualismi vecchi o nuovi.
Per finire, accenniamo al senso e alla semplicità del camice (in latino “alba” = bianco), tradizionalmente segno di
risurrezione e di festa: richiamo del Battesimo, il sacramento della più
radicale ‘separazione’ e della ‘comunione’ più profonda con Cristo e con i
fratelli.
“Qualcosa
sul celebrare”: dicendo soltanto ‘qualcosa’, molte altre ‘cose’ restano nell’ombra,
poiché la liturgia è un «celestiale appuntamento» (M. Luzi), mai compreso in
tutta la sua luminosità, mai preparato abbastanza e mai vissuto in pienezza. Ritornando
magari con altre parole su quanto abbiamo detto fin qui, vorremmo, di ‘cose’,
portarne alla luce delle altre. È comunque consolante, oltre che invogliante,
guardare al rito liturgico - nell’insieme
delle sue varie componenti: oggetti, parole, canti, gesti, movimenti - come a
quella “scala”, una scala dai molti gradini, attraverso cui Dio ‘scende’ e
l’uomo ‘sale’. Facciamo, allora, un po’ di elogio della ritualità, affidandone
l’incarico a voci del presente e del passato. «La ritualità è una regola del gioco della vita che permette di
evitare tre difetti: la familiarità sotto la forma della sfacciataggine o della
trascuratezza, poiché è un manuale di savoir-faire;
l’imprevisto che inatteso sorprende, perché, se “governare è prevedere”, la
ritualità è l’arte del prevedere, dunque di governare; l’arbitrario, poiché
quando tutto è previsto non si corre il rischio del soggettivo e si evita il
capriccio. La ritualità testimonia bene della qualità di una celebrazione» (P.
Miquel). Assai ‘ante tempus’, a questo monaco e liturgista fa eco, con vivida
concretezza, un autore cinese del secolo III a.C.: «I riti servono ad
accorciare ciò che è troppo lungo e ad allungare ciò che è troppo breve, a
ridurre ciò che è troppo abbondante e ad aumentare ciò che è troppo scarso, a
esprimere la bellezza dell’amore e del rispetto e a coltivare l’eleganza di una
condotta diritta. Perciò gli ornamenti superbi e la ruvida tela di sacco, la
musica e le lacrime, il giubilo e la pena, pur formando coppie di contrari,
sono ugualmente usati nei riti e messi alternativamente in gioco».
Don Giancarlo Boretti
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