Elementi di separazione
Ma la dinamica di accesso al luogo sacro non si conclude con la soglia, perché anche all’interno dello spazio sacro c’è un centro, un santissimo. Ecco allora che l’architettura cristiana, ma di esempi ve ne sarebbero numerosissimi anche negli altri culti, ha sentito il bisogno di creare una serie di ‘sbarramenti’ oltre la soglia, che evidenziano il carattere di luogo centrale, di meta attorniata da anelli concentrici di sacralità e contemporaneamente di percorso, di cammino verso la piena santità, secondo il paradosso tipico del luogo sacro cristiano.
Questi nuovi limiti materiali, balaustre, transenne, cancellate, avevano scopi funzionali e significati simbolici spesso strettamente intrecciati. È stato fatto notare come essi servissero da rappresentazione gerarchica della società soprattutto a partire dal periodo carolingio quando la loro necessità cominciò ad essere più rigidamente codificata. I loro usi erano tuttavia talmente vari e strettamente connessi allo svolgersi delle liturgie che sarebbe fuorviante considerarli esclusivamente sotto il profilo simbolico o sociale o anche funzionale. Va detto tuttavia che se la loro funzione mutò considerevolmente attraverso la storia, accompagnando le piccole variazioni della liturgia con delle mutazioni assai più notevoli della loro conformazione, e così pure il loro ruolo nella rappresentazione sociale ebbe molte variazioni fino a scomparire quasi totalmente, viceversa la loro importanza simbolica non venne mai meno, al punto che fu proprio essa e non la loro pervenuta inutilità funzionale a causare in tempi recenti la rimozione di molte delle balaustre e dei cancelli superstiti.
Se volessimo rintracciare le funzioni pratiche di tali separazioni dovremmo costruire discorsi differenti a seconda della tipologie in esame e della loro epoca, come in parte sarà pure necessario fare. Le più importanti di esse però sono comuni a tutte queste separazioni e facilmente deducibili. Si tratta ovviamente di proteggere fisicamente gli oggetti ed i luoghi più santi come pure di assicurare allo svolgimento dei riti uno spazio libero ed ordinato. Si potrà così individuare funzionalmente uno spazio per le liturgie corali definito per il tramite dei recinti del coro, uno spazio per le azioni liturgiche connesse al rito della Messa concentrato nel santuario ed individuato dalle sue recinzioni, e infine uno spazio ancora più interno escusivamente dedicato alla consacrazione e alle azioni immediatamente legate ad essa, racchiuso nelle cortine che un tempo circondavano gli altari. Allo stesso modo le recinzioni che chiudevano solitamente le cappelle laterali dovevano garantire sicurezza e privatezza al loro utilizzo, sovente riservato a cerimonie a beneficio di particolari, o servivano semplicemente chiudere uno spazio di fatto privato, ad uso cioè di singole famiglie o confraternite.
Il significato di quelle stesse recinzioni sul piano della rappresentazione della società è molto più sfuggente, perché variabile nel tempo e soggetto anche ad adattamenti locali. È stato scritto che la monumentalizzazione di alcuni di questi elementi, come ad esempio i muri dei cori, corrisponde temporalmente ai momenti di maggiore codificazione della gerarchia sociale ad opera della chiesa, ed in particolare al ruolo principe cui il clero assurse tra XII e XIII secolo. Non bisogna dimenticare tuttavia che se effettivamente i muri dei cori divennero opere di assoluto rilievo dimensionale e monumentale in coincidenza con questo momento, è pur vero che tale gerarchia degli spazi, diversamente declinata, esisteva fin dalle prime significative testimoniante di edilizia chiesastica. È anche in questa chiave infatti che va letta l’organizzazione della basilica antica dal cortile dei catecumeni, al nartece, all’aula basilicale che vedeva al suo interno il corridoio processionale per il clero ed infine il presbiterio escusivamente sacerdotale. Allo stesso modo la scomparsa graduale dei cori in navata a partire dal XVI secolo non può in alcun modo significare un cambiamento di rotta da parte della Chiesa nella concezione dei rapporti gerarchici della società, concezione che usciva anzi rafforzata dal Concilio tridentino. Dunque piuttosto che una manifestazione organizzata e consapevole di autorità del clero penso si debba osservare questa gerarchizzazione degli spazi attraverso le separazioni fisiche come la naturale rappresentazione dell’ordine della società secondo i costumi e le opinioni prevalenti nei luoghi e nei tempi della loro edificazione. Rappresentazione per altro inevitabile all’interno di uno spazio sacro che ha tra le sue funzioni imprescindibili quella di manifestare l’ordine divino della società, ordine che passa sempre attraverso una gerarchia. Oltre che nelle tradizioni di origine pagana sulle quali torneremo, la giustificazione principale della manifestazione fisica in architettura della gerarchia di origine celeste risiede senza dubbio nello schema del tempio di Gerusalemme, che vedeva una successione di spazi di accesso a mano a mano più ristretto fino ad arrivare al Santo dei Santi dove poteva accedere soltanto il gran sacerdote.
Sul piano simbolico le medesime divisioni agivano almeno in due modalità distinte. Una di esse era affidata soprattutto alla decorazione. Qui infatti (e lo stesso si potrebbe dire a proposito dei portali romanici e gotici del Nord) la decorazione era concentrata specialmente sulla faccia rivolta all’esterno dell’elemento separatore, come poteva essere una transenna marmorea. La maggiore decorazione dunque non era quella riservata ad essere vista da chi si trovava nel recinto interno ma da chi guardava ad esso dall’esterno, vale a dire che non era destinata alla parte più ‘preziosa’ del luogo, quella recintata, ma all’altra, a quella esterna. La ragione di questa caratteristica molto ricorrente va cercata nella necessità di rendere espressa la maestà del luogo interiore a chi non può accedervi, di rappresentarne la bellezza. In questo modo l’elemento di separazione di autogiustifica esprimendo esso stesso il valore di ciò che protegge. D’altro canto, siccome questi elementi non erano insuperabili e sappiamo che il popolo poteva oltrepassarli in molteplici occasioni dell’anno liturgico, nonché per ricorrenze proprie della vita religiosa e civile di ogni luogo, il loro carattere eminentemente simbolico spicca una volta di più. Palesata la loro debolezza funzionale infatti si evidenzia come la loro importanza simbolica ne era la reale efficacia: più che costituire un vero ostacolo a chi volesse superarli essi mettevano in figura tale ostacolo, ne erano per così dire l’immagine, o l’allusione ad un ostacolo sostanzialmente spirituale, si ergevano a simbolo della difficoltà, dello sforzo necessario al raggiungimento del tesoro spirituale che essi al contempo celavano con la loro presenza ed evidenziavano con la loro preziosità.
Esiste infine un ultimo punto essenziale dove il piano simbolico di questi elementi si manifesta ancora come reale obiettivo funzionale. Siccome infatti l’aura del sacro è fragile e come tutte le cose delicate rischia di essere ignorata, malintesa, offesa addirittura, ecco allora che quelle forme di separazione, quelle soglie che come si diceva erano un ‘ostacolo superabile’ per l’avvicinamento al sacro, spazio e tempo, fungevano infine anche da cornice a questo tempo. Il tempo sacro, del quale si è già detto, si situa all’interno di uno spazio qualificato da un rituale e nel quale nessun’altra gestualità e nessun movimento inconsulto può aver luogo a meno di non compromettere lo svolgimento del rituale e dunque la sincronia col rituale celeste. La recinzione dello spazio deputato ad ospitare questo tempo si rende così necessaria ad isolare dunque non solo un luogo dall’altro ma un tempo dall’altro. Per dir così, si potrebbe parlare di recinzioni spazio-temporali la cui presenza materiale è necessaria a preparare uno spazio per accogliere il tempo sacro. In questo modo esse collaborano allo svolgimento del rito e al contempo lo delimitano, dandogli una forma e un risalto, affinché potesse essere individuato più chiaramente, affinché non si potesse ignorarlo. Una condizione del progresso spirituale è infatti che l’uomo sia messo nelle condizioni di riconoscere facilmente la presenza del sacro, che si manifesta come un’alterità, e di non poterlo ignorare: solo la percezione di questo limite materiale infatti potrà dargli notizia o conferma dell’esistenza di quella dimensione altra, della quale egli è in cerca. Se al di là di quel limite materiale la contemporaneità col Redentore è simbolica (cioè effettiva) allora questo vuol dire che tale contemporaneità è possibile, ed ogni Cristiano potrà cercare di vivere almeno spiritualmente come “contemporaneo di Gesù”, come avrebbe voluto Kierkegaard, e così procedere all’imitazione di Cristo, e rivivere la Sua vita immedesimandosi in quel tempo, come insegna Ignazio di Loyola, perché quel tempo non è passato e quei manufatti vogliono esserne la prova.
La chiesa dei cristiani, nel momento in cui comincia a diventare un edificio riconoscibile, è costretta ad inventare una nuova tipologia edilizia e nel compiere questa impresa ha attinto a tutti i patrimoni culturali nei quali i nuovi fedeli affondavano le loro eterogenee radici. Nel caso del culto cristiano, però, a differenza dei culti che lo avevano preceduto, il luogo in cui si celebra il sacrificio coincide con quello in cui si rende concreta ed anzi materiale la presenza del Dio; di più, è proprio attraverso la celebrazione del sacrificio che la presenza del Dio si fa attuale, ci si trova pertanto davanti alla necessità di conciliare in un solo spazio le due modalità cultuali del sacrificio e della venerazione.
Da un lato la partecipazione al sacrificio doveva essere libera per tutti i battezzati, costituendo per tutti loro il modo naturale e l’unico prescritto per dare culto al loro Dio, d’altro lato la tradizione, la prudenza e la devozione imponevano una separazione per proteggere il luogo della manifestazione dello stesso Dio. Se questa immanenza della presenza divina rendeva ancora più urgente il bisogno di proteggere dai profani la materia consacrata, ed in questa direzione andarono infatti le attenzioni del clero per quasi due millenni arrivando con una lunga serie di disposizioni romane, vescovili e sinodali a specificare fin nel dettaglio le norme da osservare per soddisfare in ogni aspetto questa necessità; d’altro canto a favore del libero accesso dei fedeli alle sacre specie stavano anche ragioni di ordine pratico, e specifici caratteri della nuova religione. Il mistero eucaristico, cuore della liturgia cristiana, non poteva infatti essere chiuso all’interno di uno spazio completamente nascosto ai suoi fedeli, poiché fa parte integrante della sua celebrazione il momento della comunione, quando cioè tutti gli iniziati si accostano al pane consacrato diventato il corpo del Dio e lo ricevono nel proprio corpo. Questi problemi si erano posti fin dai primordi del Cristianesimo e ancora prima della vera e propria edilizia chiesastica, troviamo nei saloni adibiti a sale della Ecclesia anche due recinzioni interne, solitamente lignee: una a separare il clero dal popolo e una seconda a circondare l’altare. Nel momento in cui, per le mutate circostanze sociali e politiche, si incominciarono a edificare luoghi di culto pubblici e necessariamente grandi per le ormai numerosissime comunità cristiane, presto chiamati col nome stesso della comunità che vi si riuniva, cioè “chiese”, non si mancò fin dal principio di erigere al loro interno una separazione materiale tra il clero e i fedeli.
Essa a volte era articolata anche a livello pavimentale, spesso con una sopraelevazione o l’impiego di materiali più ricchi, ma sempre con l’uso di transenne opache o traforate, come avveniva ad Aquileia nel primo edificio che sostituì la vecchia domus e che ne fu diretto erede, come pure in moltissime chiese in tutto il Mediterraneo; oppure con elementi composti di archi su colonne collegate da plutei. Quest’ultima configurazione alla quale si dà spesso il nome di “pergola”, che prevedeva una precisa grammatica formale con una sorta di arco trionfale al centro ed almeno due più bassi ai suoi lati, era così diffusa che si considera uno dei i componenti del tipo fondamentale di basilica occidentale, ma anch’essa altro non è se non l’evoluzione dei primitivi cancelli in un ambiente più ricco ed ‘ufficiale’.
La separazione tra il clero e il popolo non era altro che l’ultimo gradino che concludeva una serie di barriere o meglio di elementi di demarcazione che organizzavano tutto il popolo e quindi, figurativamente tutta l’umanità in un organismo fatto di gruppi distinti sulla base della natura e del grado di iniziazione. Così come erano previste collocazioni diverse per uomini, donne e bambini, allo stesso modo il clero si divideva dal popolo, e nel popolo i fedeli erano separati dai catecumeni, relegati nelle navatelle o a volte, e più spesso soprattutto nei primi tempi, in ambienti diversi; i postulanti poi, i quali non erano ancora battezzati, restavano all’esterno dell’edificio. I mezzi concreti cui si faceva ricorso per realizzare queste separazioni differivano, e così troviamo che se i postulanti, restando al di fuori delle mura e delle porte della chiesa, non potevano né vedere, né udire nulla delle celebrazioni che vi si svolgevano, ai catecumeni era preclusa solo la vista della parte sacrificale della liturgia, mentre tra i fedeli e il mistero erano frapposti semplicemente questi recinti ‘trasparenti’.
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