Tomás H. Jerez

domingo, 30 de enero de 2011

LA LITURGIA COME DONO

Non è difficile parlare del dono riguardo la liturgia, perché qui entra in gioco il tema della grazia: la categoria del dono è naturale per la liturgia.
Partiamo dal concetto di gratuità: gratuito è ciò che non chiede niente in contraccambio, è ciò che fa “esplodere” l’economia (=compra-vendita). La gratuità è senza ritorno. A partire da questo concetto, il filosofo Derrida dice che il dono è impossibile, o, se si dà, si dà solo come evento di morte: è impossibile dare senza ricevere (si riceve almeno un grazie!), per cui per donare si dovrebbe rimanere anonimi, senza sapere chi ringraziare; tuttavia, non sarebbe sufficiente, perché, anche se si dà in forma anonima, rimane l’autocompiacimento, l’orgoglio di aver dato. Così, il vero dono si dà solo quando il donatore, donando, muore.

Petrosino, nel suo testo Il dono, ad un certo punto, citando il passo evangelico di Lc 14,12-14, riguardo l’invito rivolto a coloro che non possono contraccambiare, accentua in un certo senso quello che dice Derrida: alcuni dicono che il dono è tale solo quando comporta l’abbandono, cioè quando chi dona scompare; qui c’è da fare però una precisazione sul sacrificio, che rischia di essere visto come un dono revocato (Dio dona Isacco ad Abramo, e poi lo chiede indietro in sacrificio); così il sacrificio sarebbe il contrario del dono, la revoca del dono. Allora, solo il sacrificio di Dio è l’unico possibile: il sacrificio umano è revoca di un dono; solo Dio, mentre dona, si sacrifica. L’unica possibilità di dono è la morte di Dio. Petrosino, poi, viene fuori dalla obiezione di Derrida dicendo che il dare è già un ricevere, il dare è sempre già un accogliere. Il luogo della polarità dare-ricevere è il rapporto padre(madre)-figlio: il padre dona la vita al figlio e il figlio non può adeguatamente ringraziarlo; l’intento del padre è puramente ludico, disinteressato, in quanto si trova ad essere padre perché dona la vita al figlio e non perché vuole essere padre (lui vuole l’essere del figlio). Il padre è tale indipendentemente da ciò che farà il figlio (è un puro “esodo”). Il rientro per il padre sta nella cura che il figlio ha per il fratello, cioè per l’altro figlio: il padre attende la risposta del figlio non come risposta rivolta a sé, come “narcisismo” paterno, bensì come capacità generativa, capacità di accudire ad un fratello, di generare un altro figlio, di essere a sua volta donatore di un altro donatario. Allora riconoscere il dono, per Petrosino, non significa voler ricambiare o restituire, ma significa donare ad un altro donatario, che non è mai il proprio donatore. Ricambiare il dono significa accoglierlo in modo del tutto libero da ogni pretesa e dal delirio di voler restituire (così, pensare di ricambiare il dono di Dio, di contraccambiarlo, o di restituirgli qualcosa, è delirio). Si riceve un dono nel momento stesso in cui si diventa donatore, e non verso il primo donatore: c’è, allora, uno sguardo verso il futuro. Ma c’è anche uno sguardo al passato, alla memoria: nella decisione per il figlio, il padre fa l’esperienza di essere già figlio. Perciò, chi dona riceve nella misura in cui il donatario (figlio) si fa a sua volta donatore (padre), e questo è lo sguardo verso il futuro; e, mentre si fa donatore (padre), si scopre a sua volta donatario (figlio), e questo è lo sguardo verso il passato. Il padre, mentre genera, si ritrova figlio, e questo riguarda tutti i padri, per cui nessuno può dirsi solo padre, cioè il primo che dà l’avvio alla dinamica del donare; scoprirsi figlio, poi, significa accogliere il proprio padre. Derrida dice che il dono è tale solo se avviene all’insaputa, in modo anonimo, in un oblio assoluto, senza che il dono appaia tale né al donatore e né al donatario; Petrosino, in definitiva, risponde che nella logica del dono si riceve solo se si accoglie, cioè solo se non si pretende e non si attende di ricevere. Non si dona per ricevere un dono, ma si dona e basta; eppure, mentre si dona, si riceve un dono, ma sempre e solo come un dono, come un sovrappiù da accogliere e non come un dovuto da ricevere. Allora, il padre riceve dal figlio solo se accoglie ciò che da lui proviene, ma per fare questo egli deve a sua volta porsi come figlio rispetto al suo stesso figlio, accogliendo e non solo ricevendo ciò che da lui proviene. Così, il ricevere nel dono è un accogliere, altrimenti il dono sarebbe uno scambio. Allora, a differenza di quanto dice Derrida, non è necessario ricorrere a un oblio assoluto, all’anonimato, per salvaguardare la purezza del dono, poiché questo si conserva quando è ricordato nell’accoglienza, anche se poi questa memoria appartiene a colui che più che dare è pronto a ricevere da colui a cui dà.
Dal punto di vista della liturgia, questo discorso significa che la liturgia non è un ricevere la grazia, come per un condannato a morte; ciascun uomo, vivendo la liturgia, si scopre figlio mentre si fa padre generativo: l’evento della grazia, allora, non può essere pensato come un evento individuale, ma è comunitario, con una reciproca generazione. Di qui tutta la comunità deve partecipare attivamente alla celebrazione.

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