Una distinzione molto importante ai fini del nostro
discorso, e non coincidente con quella tra arti liberali e arti meccaniche,
sottolinea la diversità tra arti utili e arti belle[1]. Esse differiscono
perché le une sono rivolte a mezzi pratici (arti utili, appunti), le altre
invece sono finalizzate al bello, hanno la bellezza come fine. L’elemento che
qualifica ciò che noi oggi chiamiamo arte è un particolare rapporto con il
bello. L’arte esprime la bellezza del creato e del Creatore, l’arte riconosce
la bellezza e la ri–produce.
Ma cosa è la bellezza? S. Tommaso offre una ben nota
definizione: “Pulchrum respicit vim
cognoscitivam”, “pulchra dicuntur quae visa placent”, “pulchrum [...] cuius
ipsa apprehensio placet”[2]. La bellezza,
dunque, intrattiene un particolare rapporto con la vista. Non è un caso che estetiche fondate su
concezioni materialistiche del mondo abbiano tentato di privilegiare il tatto
come senso principe[3]; in realtà è la
vista il senso maggiormente coinvolto —seppure, ovviamente, non esclusivamente—
dalla conoscenza e in particolare dalla conoscenza della bellezza.
Aristotele sottolinea come l’uomo ami le sensazioni,
e tanto più il vedere: “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne
è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse,
anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la
sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche
senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo
senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci
fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose
differenze fra le cose”[4].
Gran parte del nostro vocabolario testimonia questo
privilegio della vista[5]: intuizione,
visione, lume, ne sono solo alcuni esempi.
L’arte figurativa intrattiene un particolare
rapporto con il mondo, innanzitutto perché lo vede[6], a partire dalla
visione l’uomo comincia il proprio rapporto con il bello, ed anche con il vero.
Il peculiare
modo di vedere proprio dell’uomo, così come il pensare, individuano in maniera
del tutto particolare l’uomo. Non solo egli pensa in maniera del tutto esclusiva (gli animali non
pensano, e Dio non ha bisogno di concetti per pensare), ma egli “vede” anche in
maniera del tutto incommensurabile alla visione per esempio degli animali. Mi
sembra interessante la sottolineatura condotta da Petrosino: “Questi [il
soggetto umano] vede sempre secondo l’ordine della propria esperienza la quale
è in definitiva l’unico ambito in cui la luminosità e la visibilità divengono visione e sguardo [...] la
visione ha luogo umanamente sempre e
solo esistenzialmente”[7].
Il particolare modo con cui l’uomo vede, lo conduce
non solo alla bellezza del mondo, ma da qui alla bellezza di Dio. Come S.
Tommaso ha sovente ribadito “viste le cose visibili, arriviamo a Dio procedendo
da queste”[8].
Il vedere, paradigmatico nella sua immediatezza per
ogni conoscenza noetica, di fatto introduce a un percorso dianoetico verso
l’Assoluto, in cui è coinvolta la stessa arte. La sottolineatura del valore
conoscitivo della visione, infatti, fonda ancor più il valore delle arti visive.
Il vedere dà il giusto calibro alla astrazione e la
distingue dall’astrattezza: l’astrazione comincia sempre da un vedere.
L’arte bella è, dunque, arte visiva, e, anche,
astratta e concettuale[9]. Il vedere,
l’astrazione e il concetto sono infatti necessariamente implicati nel fare
poietico umano.
Così “omnium
humanorum operum principium primum ratio est” , dunque l’arte sebbene “proprie loquendo, habitus operativus est
[...] tamen in aliquo convenit cum habitibus speculativis”[10].
Il piacere che l’arte bella dà —“ad rationem pulchri pertinet, quod in eius adspectu seu cognitione
quietatur appetitus”[11]— non è dunque un mero piacere sensibile, una
pura sollecitazione dei sensi, esso coinvolge piuttosto tutto l’uomo, il quale
è specificatamente razionale: non solo l’animale non produce arte, ma neanche
ne gode.
L’artista non dovrebbe mai negare tale struttura
complessa dell’arte, pretendendo di comunicare a un puro livello sensibile o
viceversa di veicolare una pura vertigine spirituale. L’artista non può —o non
dovrebbe— recidere il legame con la realtà creata, né con se stesso.
di Rodolfo Papa
[1] Cfr. J. Maritain, Ars et scolastique, Art Catholique, Parigi 1920, pag. 53. Al proposito, così
l’Olgiati: “Le due distinzioni sopra ricordate (tra artes mechanicae e artes
liberales, e l’altra tra artes e arte bella) non sono da confondersi tra
loro. In altre parole, per i medievali tanto un’arte servile quanto un’arte
liberale poteva diventare arte bella, come anche l’una e l’altra poteva non
arrivare a questa altezza” Olgiati,
S. Tommaso e l’arte, cit., pag. 97.
[3] Si veda, quale esempio, il
cap. III del Trattato delle sensazioni di Condillac: “Chiamasi, infatti, buono tutto ciò che piace al gusto e
all’olfatto, e bello ciò che piace
alla vista, all’udito o al tatto” E. B. de Condillac,
Trattato delle Sensazioni, a cura di P. Salvucci, Laterza, Bari
1970, pag. 203.
[5] Ovviamente ciò è stato
sottolineato spesso e con accenti diversi, basti ricordare le riflessioni di
Heidegger il quale, come è noto, ritiene che tale prevalenza della vista abbia
compromesso il rapporto tra la filosofia occidentale e l’essere.
[6] Prescindo in questo
contesto dal sentire e dalla musica, perché, come ho premesso, intendo
concentrarmi sulla pittura.
[7] S. Petrosino, Visione
e desiderio, Jaca Book, Milano 1992, pag. 7. L’analisi dell’invidia e dello
stupore come essenzialmente connessi al vedere umano, messa a tema in questo
testo, mi sembra sia una buona strada per confermare la peculiarità del vedere
umano: solo l’uomo invidia “e” si
stupisce.
[9] La pretesa che solo certa
arte sia astratta o concettuale, a mio avviso, si fonda su un’equivoca considerazione dei termini
“astrazione” e “concetto”.
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