A pochi giorni
dalla solennità del Corpus Domini, ci piace concludere questa terza
annata della nostra rubrica «Spirito della Liturgia» trattando dell’elevazione
dell’Ostia e del Calice, subito dopo la consacrazione, all’interno della Messa.
L’introduzione
nel Canone di questo gesto risale all’inizio del sec. XII per l’Ostia, mentre
l’elevazione del Calice si imporrà più lentamente e verrà ufficialmente
prescritta solo dal Messale di san Pio V (1570). Le fonti individuano la
Francia come luogo di origine dell’elevazione eucaristica e sembrano suggerire
che il motivo circostanziale fu la volontà di evitare che i fedeli adorassero l’Ostia
già all’inizio della consacrazione, quando il sacerdote prende il pane nelle
mani, per pronunciare le parole del Signore.
Sin dalla prima
metà del Novecento, diversi autori hanno però sostenuto che il vero motivo
dell’introduzione dell’elevazione sarebbe stato il desiderio, da parte del
popolo cristiano, di guardare l’Ostia. L’opera probabilmente più indicativa al
riguardo è quella di E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines
de la dévotion au Saint-Sacrament (Paris, 1926). J.A. Jungmann, uno dei più
noti liturgisti del secolo scorso, subì l’influenza di questo libro, come si
nota da quanto dice sull’elevazione nel suo famoso libro del 1949 Missarum
sollemnia: «È sorto [nel sec. XII] tra i fedeli un movimento religioso
volto ad ottenere che sia loro concesso di posare lo sguardo su quel Santissimo
Sacramento al quale osano appena di accostarsi» (ediz. it., II, p. 159). Già
nel 1940, però, G.G. Grant, in un articolo pubblicato su Theological Studies,
aveva mostrato che la tesi sostenuta da Dumoutet non poteva dirsi davvero
fondata. Essa supponeva nel popolo una forma di devozione eucaristica, che in
realtà sappiamo essere stata più effetto che causa dell’introduzione
dell’elevazione. Grant sosteneva che l’elevazione fosse dovuta piuttosto a motivi
dottrinali, ossia per innalzare una solida barriera liturgica contro gli errori
degli eretici riguardo la presenza reale. In questo senso, l’introduzione
dell’elevazione risponderebbe alla stessa preoccupazione che ha spinto
Benedetto XVI a distribuire la Comunione solo in ginocchio e sulla lingua:
mettere un punto esclamativo sulla dottrina della presenza reale (cf. Luce
del mondo, Città del Vaticano 2010, pp. 219-220).
Ma Jungmann, pur
citando Grant nel primo dei due volumi di Missarum sollemnia, mantenne
la posizione di Dumoutet, presentando tutti gli argomenti che da quel momento
in poi sarebbero divenuti affermazioni ripetute, negli scritti e nelle
conferenze di molti teologi e pastori. Tutto quello che lì dice, come pure il
legame che individua tra l’introduzione dell’elevazione e la nascita
dell’adorazione eucaristica, viene presentato in fondo in termini di
degenerazione, più che di progresso (cf. I, pp. 103 ss.).
La riforma
liturgica post-conciliare della Messa ha dimezzato il numero delle genuflessioni
che il sacerdote compie alla consacrazione, ma non ha eliminato l’elevazione
dell’Ostia e del Calice. Nonostante ciò, la tesi Dumoutet-Jungmann ha
continuato ad essere proposta, lasciando emergere la convinzione che elevare e
guardare l’Ostia consacrata sarebbe segno di una fede poco matura, se non
addirittura di una fede scaduta a livello di superstizione o di magia – certo
questo, ieri come oggi, è sempre possibile; ma non è detto che rappresenti il
significato del gesto in sé. Dobbiamo al contrario riconoscere che
l’introduzione dell’elevazione alla consacrazione è un punto di vero progresso
nella storia della Santa Messa. È da qui che nasce quel movimento di fede
eucaristica che sfocia prima nel Corpus Domini (1264) e poi in tutte le
forme di sana devozione eucaristica sviluppate fino ai nostri giorni. La
contemplazione adorante dell’Ostia e del Calice appena consacrati non fa altro
che esprimere due punti assolutamente fermi della fede cattolica
sull’Eucaristia: la transustanziazione, che avviene nell’istante stesso in cui
termina la dizione delle parole consacratorie da parte del sacerdote (cf. san
Tommaso, Summa Theologiae III, 75, 7); e la presenza reale di Cristo nel
sacramento. In realtà, l’elevazione esprime anche l’aspetto sacrificale della
Messa, che per motivi di spazio non possiamo qui sviluppare. La duplice
elevazione e le genuflessioni manifestano, e allo stesso tempo favoriscono, il
giusto modo di accostarsi al Cristo eucaristico, modo segnalato da san Paolo
prima (cf. 1Cor 11), e poi da sant’Agostino, con le celebri parole riprese da Benedetto
XVI in Sacramentum
caritatis, n. 66.
Rileggiamo il
testo del Pontefice: «Mentre la riforma [post-conciliare] muoveva i primi
passi, a volte l’intrinseco rapporto tra la Santa Messa e l’adorazione del
Ss.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora
diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane
eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere
mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale
contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva
detto: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus
non adorando – Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla;
peccheremmo se non la adorassimo”».
Il fatto che
durante il primo millennio cristiano non vi fosse l’uso di elevare l’Ostia alla
vista dei fedeli, non significa che tale gesto vada contro la purezza della
fede: significa soltanto che esso all’epoca non era stato ancora sviluppato, e
che verrà introdotto in seguito, come valida manifestazione della stessa fede
eucaristica dei Padri. Ai Padri, infatti, non sono affatto estranei né il senso
di adorazione verso l’Eucaristia, né l’importanza del guardare con gli «occhi
della fede». I limiti di questo breve articolo non ci consentono di dilungarci.
Basterà perciò ricordare un testo che negli ultimi decenni è divenuto piuttosto
noto, in quanto attesta l’uso del primo millennio di ricevere la Comunione sul
palmo della mano da parte dei fedeli. In questo testo delle Cathechesi
mistagogiche, san Cirillo di Gerusalemme imparte alcune raccomandazioni a
coloro che comunicano, affinché non vadano dispersi i frammenti eucaristici.
L’attenzione si sofferma in genere su questo aspetto. Non si nota, pertanto,
che egli accenna anche al tema del guardare l’Ostia consacrata prima di
portarla alla bocca e che parla di questo guardare come di un sacramentale,
un’azione che santifica l’uomo purificandone lo sguardo. Ecco parte del testo:
«Quando tu ti avvicini [a ricevere la Comunione], non andare con le giunture
delle mani rigide, né con le dita separate; ma facendo della sinistra un trono
alla destra, dal momento che questa sta per ricevere il re, e facendo cavo il palmo,
ricevi il Corpo di Cristo, rispondendo “amen”. Poi, santificando con cura
gli occhi con il contatto del santo corpo, prendi facendo attenzione a non
perderne nulla…» (V, 21). Come minimo, si può dire che al tempo dei Padri non
esisteva l’elevazione delle Specie consacrate, ma che se vi fosse stata, essi
non l’avrebbero osteggiata.
La Institutio
Generalis del Messale di Paolo VI (qui nell’ediz. 2008) valorizza il
guardare l’Ostia consacrata durante la Messa: al n. 222 essa prescrive che, al
momento dell’elevazione, «i concelebranti sollevano lo sguardo verso l’Ostia
consacrata e il Calice» (n. 222 e ugualmente ai nn. 227, 230 e 233). Per quanto
riguarda la «forma straordinaria» del Rito Romano, l’Ordo servandus del
Messale di Giovanni XXIII stabilisce che il celebrante, rialzatosi dalla prima
genuflessione rivolta all’Ostia appena consacrata, «alza l’Ostia in alto e
tenendo fissi su di essa gli occhi (cosa che fa anche all’elevazione del
Calice), la presenta con riverenza al popolo affinché l’adori» (VIII, 5).
Lungi dal
rappresentare una degenerazione della fede eucaristica, l’elevazione dell’Ostia
e del Calice consacrati fu un vero progresso nella storia della Celebrazione
eucaristica, progresso che va salvaguardato e valorizzato mediante l’opportuna
catechesi liturgica e il modo corretto di compiere il gesto da parte dei
sacerdoti. D’altro canto, sarebbe incomprensibile ai nostri giorni opporsi ad
una pratica che permette ai fedeli una maggiore partecipazione attiva ai sacri
riti.
L’innesto
dell’elevazione dell’Ostia e del Calice nel Canone è un segno del fatto che la
liturgia della Chiesa non è un oggetto da dissezionare sul tavolo della “sala
operatoria” degli esperti, bensì è soggetto vivo della fede e della preghiera
ecclesiali: «Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è
stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto
capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame
strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di
tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la
vita”» (Benedetto XVI, Discorso
nel 50° di fondazione del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 06.05.2011).
UFFICIO
DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO
PONTEFICE
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