Tomás H. Jerez

viernes, 25 de noviembre de 2011

LE VESTI LITURGICHE SECONDO RATZINGER

Qualche tempo fa ha provocato una certa divertita perplessità in ambito giornalistico il fatto che la rivista statunitense "Esquire", nel suo annuale riconoscimento ai personaggi che incarnano l'epitome dell'eleganza, abbia indicato Benedetto XVI come l'uomo che meglio sceglie i suoi accessori di abbigliamento. Questa scelta, di una frivolezza molto caratteristica di un'epoca che tende a banalizzare ciò che non comprende, è avvenuta in un momento in cui Benedetto XVI aveva suscitato un'attenzione mediatica senza precedenti nel riprendere alcuni indumenti di radicata tradizione papale come il camauro, un copricapo invernale di velluto rosso bordato di ermellino, o il "saturno", un cappello a tesa larga che era già stato largamente utilizzato da alcuni suoi predecessori, come Giovanni XXIII.




In quegli stessi giorni si è diffusa la diceria che le scarpe di cuoio rosso che il Papa è solito calzare erano disegnate da Prada, il celebre marchio milanese. Naturalmente l'attribuzione era falsa; la banalità contemporanea non si è nemmeno accorta che il colore rosso racchiude un nitido significato martiriale, così come non ha neanche capito che queste voci erano incongruenti con l'uomo semplice e sobrio che, nel giorno della sua elezione al papato, ha mostrato ai fedeli accalcati in piazza San Pietro e a tutto il mondo le maniche di un modesto maglioncino nero. Tuttavia, come sempre accade, quelle frivolezze inopportune nascondevano un nocciolo di paradossale verità: in effetti, a volte, anche la confusione e la stupidità riescono a percepire - in modo frammentario, confuso e snaturato - realtà che veramente esistono. E la verità è che in Benedetto XVI è, in effetti, presente una profonda preoccupazione per il vestiario; una preoccupazione però di natura molto diversa.
Sant'Ireneo diceva, verso la fine della sua esistenza, di non aver fatto altro nella vita che lasciare crescere e maturare quanto era stato seminato nella sua anima da Policarpo, discepolo di san Giovanni. In un punto memorabile della sua breve autobiografia, Joseph Ratzinger ci rivela come fin da bambino abbia imparato a vivere la liturgia, grazie al seme deposto in lui dai suoi genitori, che gli regalarono lo "Schott", cioè il messale tradotto in tedesco dal monaco benedettino Anselm Schott. Il frammento ha una bellezza germinale paragonabile a quella racchiusa nell'episodio della "maddalena" nell'opera più importante di Proust: "Naturalmente, essendo bambino non comprendevo ogni dettaglio, ma il mio cammino con la liturgia era un processo di continua crescita in una grande realtà che superava tutte le individualità e le generazioni, che diveniva motivo di meraviglia e di scoperta nuove".
Questa concezione della liturgia come patrimonio ereditato dalla Tradizione, arricchito da apporti successivi che lo fanno crescere in modo organico, contrasta con alcune visioni contemporanee che preconizzano un sapere atomizzato, orfano di fondamenta e di vincoli saldi, facilmente adattabile alla circostanza concreta; un sapere, in definitiva, rabbiosamente "originale" - come se la tradizione non fosse la forma suprema di originalità, in quanto ci permette di vincolarci alle "origini" - che ha contaminato certe tendenze liturgiche, svuotando di senso il rito. Il seme che i genitori deposero in quel bambino avrebbe in seguito recato frutti in opere come Dio e il mondo, dove Ratzinger si preoccuperà di mostrare il senso della storicità della liturgia come dono consegnato da Cristo alla Chiesa, dono che cresce con essa e incita a "riscoprirla come una creatura vivente". A questa creatura vivente avrebbe dedicato Introduzione allo spirito della liturgia, un libro in cui - in continuità con il titolo classico di Guardini - Ratzinger rivendica il concetto di Tradizione, che non è statico, "ma che non si può neanche sminuire in una mera creatività arbitraria", approfondendo una concezione della liturgia come partecipazione all'incontro di Cristo con il Padre, in comunione con la Chiesa universale.
Come il suo maestro Guardini, Ratzinger desidera che la liturgia si celebri "in modo più essenziale". E qui "essenzialità" non significa povertà, almeno non nel senso in cui alcuni hanno voluto anteporre la dimensione sociale alla celebrazione liturgica (ai quali Gesù risponde chiaramente nel brano evangelico dell'unzione di Betania); "essenzialità" significa "esigenza intima", ricerca di una purezza interiore che in nessun modo deve essere interpretata come purismo statico.
Nell'attenzione per la liturgia dobbiamo inquadrare l'importanza - visibile per qualsiasi persona non completamente stordita dalla frivolezza - che Benedetto XVI attribuisce ai paramenti e, in modo particolare, agli ornamenti liturgici. Il sacerdote non sceglie tali ornamenti per un vezzo estetico: lo fa per rivestirsi di Cristo, quella "bellezza tanto antica e tanto nuova" di cui ci parlava sant'Agostino. Questo "rivestirsi di Cristo", concetto centrale dell'antropologia paolina, esige un processo di trasformazione interiore, un rinnovamento intimo dell'uomo che gli permetta di essere una sola cosa con Cristo, membro del suo corpo. Gli ornamenti liturgici rappresentano questo "rivestirsi di Cristo": il sacerdote trascende la sua identità per divenire qualcun altro; e i fedeli che partecipano alla celebrazione ricordano che il cammino inaugurato con il Battesimo e alimentato con l'Eucaristia ci conduce alla casa celeste, dove saremo rivestiti con abiti nuovi, resi candidi nel sangue dell'Agnello. Così gli ornamenti liturgici sono "anticipazione della veste nuova, del corpo risuscitato di Gesù Cristo"; anticipazione e speranza della nostra stessa risurrezione, tappa definitiva e dimora permanente dell'esistenza umana.
Il Papa, insomma, non veste Prada, ma Cristo. E questa sua preoccupazione non riguarda l'"accessorio", ma l'essenziale. Questo è il significato degli ornamenti liturgici che Benedetto XVI si preoccupa di curare, per rendere più comprensibile agli uomini del nostro tempo la realtà più vera della liturgia.
di Juan Manuel de Prada
(©L'Osservatore Romano - 26 giugno 2008)

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