Tomás H. Jerez

jueves, 23 de diciembre de 2010

LE CATACOMBE CRISTIANE COME LUOGO DI EVANGELIZZAZIONE


Nei secoli della tarda antichità, si assiste ad una grande rivoluzione nella tipologia delle necropoli, nella loro dislocazione, nelle caratteristiche, nella disposizione. Se, infatti, le civiltà pagane del passato remoto prediligevano le tombe isolate, utili ad eroizzare il defunto o ad autorappresentare la famiglia, con l’avvento del Cristianesimo si concepì uno spazio comune funerario, condiviso, tanto che Cesario di Arles definirà questi nuovi e caratteristici “luoghi della morte” come “coemeteria christianorum” (Epist. 35).
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Nei primi secoli del Cristianesimo – come è noto – i fratelli di fede sistemarono i defunti nelle aree sepolcrali pagane, come dimostrano chiaramente i casi dei sepolcri di Pietro e Paolo, situati rispettivamente nelle necropoli del Vaticano e della via Ostiense.
Dei due sepolcri è più noto quello relativo all’apostolo Pietro, individuato durante il secondo conflitto mondiale, in seguito ad una sistematica campagna di scavo che mise in luce un organismo, che sembra corrispondere perfettamente a quei trofei a cui allude Eusebio di Cesarea, quando riferisce che, al tempo di papa Zefirino (199-217), il presbitero Gaio aveva potuto vedere i trofei degli Apostoli: “Se, infatti, ti incamminerai per la via Regia verso il Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa” (Hist. Eccl. 2,25,7).
Gli archeologi – come si diceva – trovarono la “memoria petrina”, sobria ma monumentale, tanto da raggiungere quasi tre metri di altezza, priva di qualsiasi apparato decorativo che avrebbe in qualche modo, distratto l’attenzione dei visitatori che, sin dalla prima ora, si propongono come attivi protagonisti di una devozione basata piuttosto sul contatto fisico con il sepolcro, che sulla sosta, sulla meditazione o sulla ricerca di riferimenti o elementi iconografici che rievocassero la storia del martire.
Questo atteggiamento devozionale, fatto di rapidi gesti rituali, produce, già nelle adiacenze del sepolcro, un densissimo palinsesto di graffiti riferibili ad una frequentazione e, dunque, ad una prima forma di culto e di pellegrinaggio alla memoria petrina. La presenza dei graffiti, in un contesto monumentale paleocristiano, sia esso solamente funerario, sia esso di natura proprio cultuale, rappresenta un po’ il “fossile guida” per l’archeologo e lo storico che si pongano alla ricerca delle mete del pellegrinaggio.
In età apostolica, dunque, i cristiani si calano, come fermento nella pasta, nella società contemporanea, mostrando subito la loro specifica identità, come ricorda la lettera a Diogneto, indirizzata da un anonimo cristiano del II secolo ad un pagano: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per vestiti. Ogni terra straniera è una patria per loro e ogni patria è terra straniera. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo”.
Questo passo, così significativo, ci fornisce un’idea eloquente del mondo in cui si calarono i cristiani nei primi secoli, definendo le coordinate essenziali di un nuovo modo di vivere e di confrontarsi con la realtà sociale del tempo. Tale mentalità che educa alla libertà di coscienza, alla dignità della persona, rimbalza un po’ in tutto il mondo cristiano antico, sino all’Africa, se Tertulliano, negli stessi anni, si interroga sul motivo delle persecuzioni nei confronti dei fratelli, quando, in realtà essi frequentano gli stessi fori dei pagani, lavorano negli stessi mercati, negli stessi negozi, nelle stesse officine, praticano le stesse arti, navigano e combattono insieme a loro (Apol. 42,2-3).
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Ma lasciamo l’atmosfera ancora indistinta dei primi tempi e torniamo a Roma per ricostruire la dinamica delle origini delle catacombe, che rappresentano la vera e rivoluzionaria novità funeraria apportata dalle comunità cristiane.
Grava ancora sul mondo delle catacombe una certa quantità di luoghi comuni, che dipingono queste suggestive necropoli ipogee utilizzate dai cristiani dei primi secoli, come tristi scenari di morte, come teatri delle più cruente azioni persecutorie e come estremo rifugio dei fratelli in fuga.
Tutte queste idee, alimentate dai romanzi dell’Ottocento e dai kolossal cinematografici del secolo scorso, cominciarono a circolare piuttosto presto se, nella seconda metà del IV secolo, San Girolamo si sofferma a descrivere l’habitat oscuro delle catacombe con termini e temi piuttosto forti ed impressionanti, rievocando come, da ragazzo, quando soggiornavo a Roma per studiare, era solito visitare le tombe degli apostoli e dei martiri, insieme ai suoi compagni, nel giorno del Signore: “Spesso – racconta Girolamo – entravamo nelle gallerie, scavate nelle viscere della terra, completamente interessate dalle tombe e così oscure che sembrava realizzarsi il motto profetico “Discendano vivi nell’inferno” [Sal 54,16]. Rare luci, provenienti dal sopratterra attenuavano un poco le tenebre, ma il chiarore era talmente flebile che sembrava provenire da uno spiraglio e non da un lucernario. Si procedeva adagio, un passo dietro l’altro, completamente avvolti nel buio (In Ezech. 12,40).
Questa oscura visione delle catacombe romane, che risente dei ricordi enfatizzati dell’infanzia, non corrisponde pienamente allo spirito, che aveva animato i primi cristiani, quando decisero di costruire dei cimiteri propri, ove deporre i fratelli di fede defunti, come in una sorta di dormitorio (di qui la definizione koimeteria) in attesa della resurrezione finale.
Le catacombe non erano altro che cimiteri comunitari, pervasi da un intenso senso della communio sanctorum e dalla realtà pasquale e non luoghi di rifugio, come si è ritenuto per tanto tempo. Questi sotterranei, infatti, erano ben conosciuti alle autorità romane nella loro ubicazione; in un certo senso, ne veniva ammessa la funzione funeraria, ancor più degli edifici di culto che, nei primi secoli, dovevano mimetizzarsi nel fitto tessuto urbano delle grandi metropoli.
Negli ultimi anni del II secolo, le comunità cristiane trovano la forza e l’organizzazione per svincolarsi dalle sepolture delle aree pagane, di cui, sino a quel momento, si erano servite, come nei casi celebri delle sepolture di San Pietro in Vaticano e di San Paolo sulla via Ostiense, per creare delle aree proprie.
In questo frangente, muta completamente il concetto individuale delle sepolture e si solidifica quel “senso comunitario” che guiderà la “mens” cristiana dei primi secoli. Questo spirito nuovo spinge i fedeli a creare delle vere e proprie “areae sepulturarum nostrarum”, come precisa autorevolmente Tertulliano, quando, in occasione di un contenzioso tra i fratres cristiani e la plebe pagana, quest’ultima gridava a gran voce: “areae non sint!” nel senso che non si volevano concedere ai cristiani delle aree speciali, comunitarie e distinte delle necropoli pagane (Ad Scapulam 3).
Negli stessi anni, ovvero nell’estremo scorcio del II secolo e agli esordi del seguente, anche i cristiani di Roma creano degli spazi funerari propri, talora gestiti dalla più alta gerarchia della Chiesa, come nel caso della cosiddetta “area prima” del complesso di San Callisto, il cimitero voluto da papa Zefirino (199-217) e affidato alle cure dell’allora diacono e futuro papa Callisto (217-222) (Ippolito, Philosophumena IX, 12-14).
Anche in Oriente il concetto di cimitero, inteso come un “dormitorio comune”, inizia a diffondersi, come testimonia S. Giovanni Crisostomo, che definisce i cimiteri come luogo di riposo provvisorio in attesa della resurrezione finale (Coemeteria1) e come conferma, per Alessandria, lo stesso Origene, che ricorda l’esistenza di grandi necropoli comunitarie attestate nel suburbio della città (Hom. In Jer. 4,316).
In tutto il mondo cristiano antico si sviluppa, dunque, il desiderio di creare delle aree cimiteriali comuni, per offrire a tutti i fratelli una sistemazione funeraria dignitosa. Secondo la testimonianza, sempre precisa di Tertulliano, si viene a creare una “cassa comune”, utile ad assicurare la sepoltura agli indigenti, alle vedove, agli orfani (Apol. 39,6).
La grande rivoluzione della sepoltura comunitaria cambia notevolmente il paesaggio suburbano di Roma e di molte città del Mediterraneo. Soltanto a Roma si contano oltre cinquanta catacombe ed altrettante sono dislocate in territorio laziale, mentre altri monumenti catacombali sono stati individuati in Sicilia, a Malta, nell’Africa Settentrionale, in Campania, in Sardegna, in Umbria, in Toscana, in Puglia, in Abruzzo, in Basilicata, nell’Arcipelago Toscano.
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Se guardiamo al panorama catacombale laziale, che è stato preso in considerazione dal Progetto che presentiamo quest’oggi, ci rendiamo conto del grande numero di monumenti dislocati in tutta la regione, tanto che tali cimiteri rappresentano, assai spesso, l’unica testimonianza concreta della cristianizzazione del territorio laziale, una cristianizzazione che dovette avvenire piuttosto precocemente, come dimostra la presenza di culti martoriali, che non hanno nulla da invidiare a quelli romani: da S. Cristina a Bolsena a S. Senatore ad Albano; da S. Ilario a Valmontone a S. Vittoria a Monteleone Sabino.
Questi campioni della fede danno avvio ad un culto che non si arresta attraverso i secoli, tanto che, in corrispondenza delle loro sacre tombe, si innalzeranno, sin dal primo medioevo, delle basiliche, che rappresentano la testimonianza commovente e insopprimibile di una devozione larga e popolare.
Così come nelle più grandi e celebri catacombe romane, anche nelle catacombe del Lazio i primi cristiani desideravano essere sepolti vicino alle tombe dei martiri, nel senso che si riteneva che la sepoltura “ad sanctos” producesse dei vantaggi per l’anima dei fratelli scomparsi, in vista della ricompensa finale. Questa credenza, certamente significativa di una genuina mentalità religiosa, che interessa anche il concetto profondamente teologico della preghiera di intercessione, nel senso che i fedeli, pregando presso le tombe dei martiri, abbracciavano, con le loro intenzioni, anche quella dei defunti ordinari, sistemati nei pressi di quei sepolcri eccellenti. Insomma – come ricorda S. Agostino (Cur. Mart. 4-5) – i vivi rivolgevano una preghiera ai martiri, affinché questi svolgessero un ruolo di “patronato” che giovava alle anime dei defunti. E’ la splendida realtà dell’amore fraterno tipico della vita ecclesiale.
Anche nelle basiliche funerarie sorte nel territorio laziale, si doveva svolgere la celebrazione eucaristica a suffragio delle anime dei defunti. E’ questo uno degli atti più delicati ed affettuosi della carità cristiana.
Il progetto che quest’oggi si propone all’attenzione dei fruitori, vuole proprio recuperare tutti questi gesti e queste idee liturgiche e di devozione. I pellegrini del terzo millennio, che si avvicinano a questi monumenti, per il tramite del “portale” e della pubblicazione curati dal progetto perseca, potranno calarsi nella suggestiva atmosfera delle origini, alla ricerca di quella nuova evangelizzazione, che trova fortemente motivata ed impegnata la Chiesa nel nostro tempo.
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Chi percorre effettivamente o virtualmente le gallerie delle catacombe, si sofferma ad ammirare le ingenue decorazioni pittoriche, i sontuosi rilievi dei sarcofagi, i luminosi brani musivi, le ardite architetture scavate nel tufo, si emoziona dinanzi agli epitaffi, ora semplici ed essenziali, ora più complessi e oscillanti tra un umano e nostalgico ricordo della persona cara ed un’incrollabile speranza nella vita dell’aldilà, che consola amici e parenti ed è oggettivamente radicata nel mistero pasquale.
La visione delle catacombe, che si presenta al visitatore contemporaneo, è lacunosa, frutto delle troppe incursioni dei vandali di ogni epoca, a cominciare dalle invasioni storiche, quando le catacombe, concludendo la loro funzione funeraria, agli esordi del V secolo, mantennero esclusivamente il ruolo di sedi del culto martoriale, un ruolo che, sostenuto dal “sensus fidei” del popolo di Dio, confluì nel programma pastorale del grande papa Damaso (366-384), il pontefice che ricercò sistematicamente, con grande amore, le tombe dei martiri, le monumentalizzò e le pose al centro di suggestivi itinera ad sanctos.
I pellegrini, giunti da ogni dove nella città santa, si incamminavano per le vie consolari, si fermavano nel suburbio, si calavano nelle catacombe, si raccoglievano in preghiera dinanzi alle tombe, leggevano gli epitaffi che papa Damaso aveva fatto incidere in onore dei campioni della fede, sfioravano con piccoli pezzi di stoffa (palliola) quei santi sepolcri con il sacro gesto dell’ex contactu, accendevano lumi e lucerne sulle mense situate nei pressi di quelle eccezionali deposizioni.
Per i pellegrini dei nostri giorni, ripercorre quegli itinerari sotterranei, fermarsi dinanzi a quelle tombe tanto antiche e tanto sante, significa tornare, con un incredibile percorso a ritroso, alla fede della prima ora, a quella fede per cui alcuni fratelli delle comunità primitive combatterono, in maniera ferma e risoluta, sino alla morte, quella fede che, con la garanzia dell’ufficio petrino, rimane immutata nello scorrere dei millenni e continua a far fruttificare l’albero della Redenzione.
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Gli oscuri ambienti ipogei erano rallegrati da una decorazione estremamente gioiosa e positiva. E’ significativo constatare che gli esordi di un’arte propriamente cristiana a Roma, coincida con la nascita delle catacombe, tra il II e il III secolo, quando a Callisto viene affidata la sovrintendenza delle catacombe della via Appia. Proprio nell’”area prima” di San Callisto si inaugura la grande stagione figurativa dell’arte delle catacombe, che interesserà tutto il III, il IV e il primo decenni del V secolo.
L’arte delle catacombe dei primi secoli allude ovviamente alla salvezza finale, con raffigurazioni direttamente ispirate agli episodi salienti della Bibbia. Questo modo di procedere riflette la sensibilità dei cristiani delle prime comunità e si collega con l’attività culminante della Chiesa e fontale per le buone opere: il culto divino! La scelta delle immagini bibliche, infatti, risponde perfettamente alle formulazioni delle prime preghiere. Di esse disponiamo di redazioni piuttosto tarde, che contengono, però, i nuclei più antichi. In queste orazioni si fa esplicito riferimento alla salvezza concessa ai tre giovani ebrei di Babilonia nella fornace, a Daniele nella fossa dei leoni, a Giona ingoiato dalla balena, a Susanna insidiata dai seniores, ad Isacco che sta per essere immolato da Abramo.
E’ significativo poter constatare che questi episodi siano proprio quelli rappresentati nelle aree più antiche delle catacombe, dimostrando, così, che i pittori della prima età cristiana giustamente cercano nel grande repertorio della Bibbia i paradigmi più sintomatici della salvezza, rispettando perfettamente le aspirazioni dei fedeli della comunità romana.
Nelle catacombe si sviluppa, poi, un repertorio propriamente simbolico, nel senso che appaiono, sin dal III secolo, delle figure isolate con un significato estremamente pregnante, come accade con l’immagine del buon Pastore che, provenendo dalla tradizione pagana, si carica di un senso tutto cristologico, quando personifica il personaggio dei Salmi e quello ancora più significativo della parabola della pecorella smarrita.
Ancora più ricca appare l’immagine dell’orante, ovvero del defunto atteggiato con le mani levate, secondo il sacro gesto dell’expansis manibus. Con questo gesto, così solenne e suggestivo, non si vuole esprimere il concetto della preghiera, intesa come richiesta di intervento divino o come supplica, bensì come ringraziamento, come canto di lode al Signore per il pericolo scampato, per il peccato perdonato, per la salvezza raggiunta. E’ per questo che assumono il gesto i personaggi biblici salvati dalla morte, come Noè nell’arca, Daniele tra i leoni, Giona, i giovani nella fornace. E’ per questo che, con il gesto dell’orante, si vuole alludere ad una preghiera continua, ininterrotta, che impegna il cristiano durante tutto il suo itinerario spirituale, secondo quando intende Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi. E’ la “laus perennis”.
Nell’arte delle catacombe si assiste anche alla nascita di un repertorio costituito da simboli più semplici, quali l’ancora, la nave e il pesce, che alludono rispettivamente alla fede, alla Chiesa e al Cristo, dimostrando come la comunità delle origini elabori un linguaggio sintetico per esprimere i concetti fondamentali del proprio “credo”.
Questi simboli, così semplici e così espressivi, sembrano indirizzati alla grande base della società cristiana dei primi secoli, non sempre alfabetizzata e, pertanto, estremamente sensibile al messaggio figurato che è alternativo alla scrittura, tanto che quest’arte viene comunemente e sintomaticamente definita Biblia pauperum, il cui messaggio è comunque universale.
La semplicità di questi simboli riflette l’essenzialità delle sepolture delle catacombe, per lo più rappresentate dai loculi, la tipologia funeraria più elementare e riprodotta in centinaia di esemplari lungo le gallerie, dando luogo ad un “mondo di uguali”. Questi loculi, semplicemente chiusi da lastre con il solo nome del defunto, creano un habitat estremamente suggestivo nel senso che si assiste ad una sorta di appello epocale, dove i cristiani rispondono con il solo loro nome di battesimo. Percorrendo quelle gallerie di tombe uguali, risuonano le parole di Lattanzio “Tra noi non ci sono né servi, né padroni; non esiste altro motivo se ci chiamiamo fratelli, se non perché ci consideriamo tutti uguali” (Div. Inst. 5,15).

Relazione di S.E. Mons. Mauro Piacenza

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